[Roma 2012] Aku no kyoten – Il canone del male, la recensione
Molti (soprattutto Marco Müller) si aspettavano da Takashi Miike e dal suo Aku no kyôten una partenza di Festival col botto. Così non è stato, almeno in parte...
Takashi Miike, insieme ai più anziani Johnny to e John Woo, è uno dei tanti registi asiatici d'azione che negli ultimi dieci anni sono passati dall'essere autori di culto e di nicchia a concorrenti abituali nei più importanti Festival internazionali. Solo due anni fa il giapponese Miike era in Concorso alla Mostra del cinema di Venezia con il meraviglioso 13 assassini (uno dei grandi esclusi dal palmarès), mentre l'anno scorso concorreva alla Palma d'Oro a Cannes con Hara-Kiri – Death of a Samurai.
Siamo nel corpo, più che nella mente, di un assassino seriale di bellissimo aspetto, modi gentili e trascinante simpatia. Il professor Hasumi è adorato dai suoi studenti e invidiato dai colleghi. Eppure veniamo presto a sapere che la sua mente è pericolosamente deviata. “Io non uccido per divertimento” lo sentiremo affermare in una scena chiave che ricorda l'educazione all'omicidio ricevuta negli Stati Uniti (leitmotiv del film: la cultura yankee genera mostri), ma una cosa è certa: il professor Hasumi uccide con grande soddisfazione e meticolosità. In più depista, spia, manipola, seduce tutto e tutti. Adulti e studenti. Lo interpreta con straordinario carisma Hideaki Ito e la cinepresa di Miike è coraggiosa, e politicamente scorretta, nell'inquadrarlo come un bambino irresistibile alle prese con i suoi giochi. Qual è il problema allora? Una fotografia eccessivamente morbida (troppa luce!), dei flashback troppo arzigogolati che contribuiscono a non capire le motivazioni di Hasumi e un finale mattanza, che ricorda la strage di Utoya, fin troppo lungo e scontato (anche se Miike enfatizza come altri registi non fanno l'effetto devastante di una fucilata, per chi spara e per chi la riceve).