Rodeo, la recensione

Storia di una ragazza appassionata di moto e acrobazie, Rodeo è un film libero e senza concessioni, come la sua protagonista

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La nostra recensione di Rodeo, al cinema dal 6 luglio

C'è un evidente modello, anzi due, a guidare Rodeo, esordio alla regia di Lola Quivoron. È il Kechice filtrato da Andrea Arnold, verso un'idea molto precisa di cinema. Nell'incipit, vediamo la protagonista, Julia, uscire di casa per andare a recuperare la sua moto. Come ne La schivata, siamo catapultati senza introduzione nel bel mezzo delle vicende, la macchina da presa segue con instabilità la frenesia della ragazza, restando alla sua altezza e mantenendo il contesto sullo sfondo. Il film si ambienta nella periferia di Bordeaux, tra fabbriche dismesse e degrado urbano, eppure, come in American Honey, il focus non è il realismo sociale, ma la resa del vissuto emotivo, soprattutto l'euforia, la storia di una femminilità che non vuole sottomettersi.

Julia ama correre in moto: per farlo ruba quelle di sprovveduti venditori, e si lancia senza freni in strada. Rotti i flebili legami con la propria famiglia, ne trova un'altra nel mondo clandestino del cross bitume, pratica che consiste nel compiere acrobazie su un tratto di asfalto. Si unisce così alla banda di un pericoloso criminale per cui comincia a lavorare, fino a subire i contraccolpi della propria intraprendenza.

Alla base della storia c'è dunque una questione di genere (il mondo esclusivamente maschile delle corse clandestine, in cui le donne sono spettatrici o mogli succubi) e anche di razza (Julia viene dalla Guadalupa e si inserisce in un contesto prevalentemente bianco). La protagonista diventa dunque il grimaldello con cui scalfire questi dogmi, sovvertendo gli stereotipi e guadagnandosi presto la fiducia dei compagni, in un primo momento riluttanti. La sua interprete, Julie Lendru, ne incarna perfettamente il suo essere figura trascinante, inscalfibile, sicura di sé. E il film, ponendosi in simbiosi con lei, trova la propria forza.

Il pregio di Rodeo è infatti di non fare mai di queste coordinate il "tema" portante del proprio racconto, ma di usarle come leva per una messa in scena che mira prima di tutto a trasmettere un'esperienza intima, le sensazioni provate. Bastano veloci dialoghi per dipingere un contesto, basta lasciare che i dettagli emergano da sé, senza sottolineature esplicite. Così, la storia si può concentrare sulle lunghe scene che mostrano Julia in sella alla moto in tutta la sua adrenalina; i ritrovi con i propri compagni, tra musica e derapate. Il microcosmo in cui la regista si inserisce insieme alla sua protagonista non viene però epurato dai suoi aspetti più oscuri: all'ebrezza delle corse si affiancano il pericolo di morte e la crudeltà di alcuni ragazzi. Ma appunto non c'è intenzione di denuncia, di discorso socio-politico, se non indirettamente nella libertà che il film trae dalla propria protagonista, senza concessioni al sentimentalismo o ad abbellimenti.

È chiaro che Quivoron non possiede (ancora) la radicalità dello sguardo degli autori a cui si ispira. Al suo esordio bisogna perdonare alcune lungaggini, specie nella seconda parte, i superflui intermezzi onirici, l'uso eccessivo di ralenti nel finale, utili a dare solennità e rilevanza a una storia che non ne aveva bisogno. Ma le premesse per una fulgida carriera ci sono tutte.

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