Rodeo, la recensione
Storia di una ragazza appassionata di moto e acrobazie, Rodeo è un film libero e senza concessioni, come la sua protagonista
La nostra recensione di Rodeo, al cinema dal 6 luglio
Julia ama correre in moto: per farlo ruba quelle di sprovveduti venditori, e si lancia senza freni in strada. Rotti i flebili legami con la propria famiglia, ne trova un'altra nel mondo clandestino del cross bitume, pratica che consiste nel compiere acrobazie su un tratto di asfalto. Si unisce così alla banda di un pericoloso criminale per cui comincia a lavorare, fino a subire i contraccolpi della propria intraprendenza.
Il pregio di Rodeo è infatti di non fare mai di queste coordinate il "tema" portante del proprio racconto, ma di usarle come leva per una messa in scena che mira prima di tutto a trasmettere un'esperienza intima, le sensazioni provate. Bastano veloci dialoghi per dipingere un contesto, basta lasciare che i dettagli emergano da sé, senza sottolineature esplicite. Così, la storia si può concentrare sulle lunghe scene che mostrano Julia in sella alla moto in tutta la sua adrenalina; i ritrovi con i propri compagni, tra musica e derapate. Il microcosmo in cui la regista si inserisce insieme alla sua protagonista non viene però epurato dai suoi aspetti più oscuri: all'ebrezza delle corse si affiancano il pericolo di morte e la crudeltà di alcuni ragazzi. Ma appunto non c'è intenzione di denuncia, di discorso socio-politico, se non indirettamente nella libertà che il film trae dalla propria protagonista, senza concessioni al sentimentalismo o ad abbellimenti.
È chiaro che Quivoron non possiede (ancora) la radicalità dello sguardo degli autori a cui si ispira. Al suo esordio bisogna perdonare alcune lungaggini, specie nella seconda parte, i superflui intermezzi onirici, l'uso eccessivo di ralenti nel finale, utili a dare solennità e rilevanza a una storia che non ne aveva bisogno. Ma le premesse per una fulgida carriera ci sono tutte.