Roar, la recensione

8 ritratti di donne accomunati da un elemento weird e dal percorso di autocoscienza dei personaggi. La morale però spesso prevarica il piacere del racconto. La recensione

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La recensione di Roar, dal 15 aprile su AppleTv+

Ci sono due costanti elementi a sorreggere tutti gli episodi di Roar. Due elementi che dovrebbero lavorare in sintonia, come accade in quelli più riusciti (che sono però la minoranza), quando invece, nella maggior parte dei casi, uno finisce per sovrastare l’altro, e l’efficacia ne risente. Si tratta di un presupposto weird, un qualcosa di strano e dissonante, che a volta sfocia nel creepy, a volte nel grottesco: mangiare fotografie, dare appuntamenti alle anatre, vivere sugli scaffali come trofei. E poi la parabola dei personaggi, l’insegnamento che traggono loro (e noi spettatori) al termine dell’arco narrativo. Una componente straordinaria come cornice di una molto più ordinaria, dal valore universale, al servizio di una trattazione a tutto tondo della condizione femminile. Una chiarezza d’intenti che azzoppa il risultato complessivo della serie.

Roar, serie antologica da 8 episodi (di circa 30’ ciascuno), disponibile dal 15 aprile su AppleTv+, è basata sull’omonima raccolta di racconti scritta da Cecelia Ahern, e vede come creatori Liz Flahive e Carly Mensch, già dietro la serie Netflix Glow, di cui ritorna la prospettiva femminile. 8 diversi e autoconclusivi ritratti di donne, in contesti variegati: dalle moderne metropoli al selvaggio west, da donne bianche ad afroamericane, da mogli ricchissime a giovani studentesse in difficoltà economica.

Situazioni assai diverse trovano però direttrici assai comuni, per esiti singoli molto altalenanti. In pochi casi, nonostante il messaggio sia chiaro, il presupposto di partenza costruisce uno svolgimento intrigante e lascia spazio a un finale aperto. Nel primo episodio, The Woman Who Disappeared, una giovane scrittrice afroamericana si reca a Los Angeles per discutere dell’adattamento su grande schermo di un suo best-seller, facendo i conti con un mondo dominato da maschi bianchi e accorgendosi di stare scomparendo alla vista altrui. Qui le atmosfere sono da black horror, filone che, dopo l'exploit di Jordan Peele, è ultimamente assai frequentato sul grande schermo (Antebellum) e su piccolo (Them). La breve durata della puntata è funzionale a costruire una storia d'impatto da un'inedita prospettiva.

Gli episodi meno convincenti sono invece quelli in cui la morale prevale e prevarica il piacere del racconto. Una volta imbastito il meccanismo, sembra sempre chiaro dove la vicenda voglia andare a parare, per concludersi in un finale smaccatamente prevedibile. In The Woman Who Was Kept on a Shelf, una moglie viene messa dal ricco marito su uno scaffale davanti alla sua scrivania, come oggetto di perenne contemplazione. Una chiara metafora di una condizione femminile diffusa su cui però l’episodio non sa costruire un intreccio forte. Le intuizioni, assai perspicaci di per sé, non sono insomma quasi mai portati alle estreme conseguenze, ma semplici veicoli per esplicitare il tema al centro di ciascuna storia. È quindi quasi di frustrazione la reazione che si prova quando, sovente, l’elemento di curiosità è ricondotto a binari scontati.

Roar è del resto anche l’occasione per una gran parata di star del piccolo e grande schermo. Tra le tante, citiamo Nicole Kidman, Cynthia Erivo (Harriet), Judy Davis (Feud), Merritt Wever (Godless), Alison Brie, Betty Gilpin (viste entrambe in Glow). Ogni episodio è costruito sulla loro performance, sul loro impegno di farsi incarnazione della sfaccettata condizione femminile. In questo senso, Nicole Kidman ci offre il solito ritratto di madre e moglie nevrotica in difficoltà, senza aggiungere molto ad una galleria ormai folta (da Big Little Lies a The Undoing). Al contrario, Alison Brie si conferma corpo comico notevole, dotato di fisicità esplosiva e parlantina tagliente, capaci di rendere assai spassoso il suo episodio.

Ritratti di donne, si diceva. Ma in fondo, che tipo di ritratto emerge in Roar? Glow era stata l’occasione per fare assumere ad un contesto maschile (il wrestling) una prospettiva femminile attraverso figure anticonvenzionali ma imperfette, per trattare temi importanti senza soluzioni comode (per approfondire, vi rimandiamo alla nostra recensione). Qui invece il discorso è molto più lineare. Le protagoniste si confrontano sempre con la dominazione maschile: a volte riescono a sopraffarla, altre no, altre ancora trovano occasione di riconciliazione. Ma il messaggio di fondo ("trova te stessa!", "capisci chi sei veramente"), il loro percorso di (auto) coscienza è sempre lampante. Lo sguardo verso di loro è di commiserazione, senza mai mettere in discussione i principi che portano avanti o dare uno sguardo lucido su realtà già ampiamente assodate. Così il ruggito del titolo non è che una eco rauca.

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