Road House, la recensione
Il remake del cult con Patrick Swayze tenta la carta della riflessione crepuscolare, ma rischia di non indovinare il tono giusto
La recensione di Road House, il nuovo film diretto da Doug Liman, in arrivo su Amazon Prime il 21 marzo.
Se Il duro del Road House era evidentemente un western sotto mentite spoglie – completo di Sam Elliott già pronto per il cowboy de Il grande Lebowski - Road House si pone nei suoi confronti come l’anti-narrazione crepuscolare e insieme la riflessione metacinematografica sull’archetipo. Almeno nei piani, si potrebbe dire che Road House sta a Il duro del Road House come Gli spietati (1992) stava a qualcosa come Il cavaliere della valle solitaria (1953). L’avventura spensierata e la gioia infantile non sono più possibili; gli eroi non sono più cavalieri senza macchia, ma antieroi o forse qualcosa di peggio, come ci ricordava William “ho ucciso donne e bambini” Munny nello straziante finale del capolavoro di Eastwood.
Il problema del film allora è questo: nessuno ricorderebbe con affetto il Dalton di Swayze se sotto l’eroe si fosse nascosto un Norman Bates. Road House ‘89 lo sapeva, è il motivo per cui faceva immediatamente rientrare quel momento così dark, in cui la violenza nonostante la forma iperbolica sembrava diventare vera. Non c’era niente di vero in quel film, tutto era cartoon, era musical, era surreale, era Mito. Road House ‘24 ha il coraggio di guardare in faccia quella violenza, ma questo – complice l’intensità di Gyllenhaal, attore troppo inquietante, troppo “vero” - gli si ritorce contro nel momento in cui il film, in un classico caso di botte piena e moglie ubriaca, vorrebbe anche mantenere il tono dolcemente surreale e accogliente dell’originale.
Stesso discorso per il ruolo giocato dal mondo dell’MMA, comprensibile come aggiornamento al presente ma che di nuovo si scontra con l’incapacità di rinunciare del tutto all’eroismo classico. Road House conferma le difficoltà di Hollywood nel conciliare il proprio bisogno di eroismo ed empatia con un mondo popolarissimo ma autenticamente violento e nichilista come quello delle mixed martial arts. Ancor più della prova di Gyllenhaal quella di Conor McGregor è la spia di un’incapacità dei realizzatori di gestire e collocare la violenza in un mondo fatto di mito e archetipo, dove (come in Driver di Walter Hill) le barche si chiamano “La Barca” e i roadhouse “Il Road House”. McGregor irrompe con la sua furia, fa sostanzialmente sè stesso, e più che divertire fa davvero paura. È quello che rende interessante Road House. Ma è anche quello che, quando un personaggio dice a Gyllenhaal “non sei nè un eroe nè un cattivo”, ci fa credere solo alla prima parte. Se guardi troppo a lungo nell’abisso...