Ritratto di Famiglia con Tempesta, la recensione
Tutto pensato per l'ultima scena e costruito per farla vedere al pubblico come esiste nella testa del regista, Ritratto di Famiglia con Tempesta è una perla
C’è infatti buona parte della sua vita vera in questa storia di due genitori separati e di un padre che cerca di stare quanto può con il figlio, si rovina con le scommesse e ha un lavoro che non lo mantiene a sufficienza. Povertà giapponese, senso di inadeguatezza ma poi anche dei momenti di fantastica comunione con un figlio e di speranzosa, impossibile riunione con la moglie.
Come negli ultimi film è ancora la famiglia il centro del racconto e, in molti modi diversi, il tempo. Little Sister raccontava un anno che sembrava una vita, qui invece ci sono dei momenti molto più brevi che sembrano troppo brevi, si ha l’impressione che il protagonista non stia mai quanto dovrebbe o vorrebbe con il figlio, si sente lo sfuggire del tempo tra le dita, il desiderio di fermare un istante.
Quello di Koreeda è un cinema difficilissimo, di rara mimesi con il naturale, dotato della capacità incredibile di forzare la mano apparentemente molto poco alle immagini e comunque lasciare che sintetizzino al massimo ciò che il racconto non dice a parole.
Di nuovo al lavoro con il grandissimo protagonista Hiroshi Abe, Ritratto di Famiglia con Tempesta è una ode malinconica che funziona come un ricordo addolcito, in cui anche le parti più drammatiche sono ammorbidite da un’atmosfera fatta di campi lunghi in esterno e medi in interno, tramite la quale Koreeda racconta un’estate. Quel periodo che il cinema ama usare per incastrare in una finestra temporale ben definita le storie d’amore giovanili, qua (come già nel fantastico L’Estate di Kikujiro di Kitano) incastra un adulto e un bambino, sempre nell’atto di reinnamorarsi l’uno nell’altro.