Ritorno al Bosco Dei 100 Acri, la recensione
Uggioso, riflessivo e con grande voglia di poesia Ritorno al Bosco dei 100 Acri rifiuta l'avventura per la contemplazione
Ritmo compassato, riprese della natura, al tramonto con quella che si presenta come luce naturale, colori desaturati e poca profondità di campo, attesa, rarefazione e controluce, Winnie The Pooh incontra The Tree Of Life. Più che ad un inizio sembra di assistere alla fine di un altro film, quando completata l’avventura il ritmo si affievolisce e siamo pronti a salutare i personaggi mentre loro stessi si dicono addio.
È tutto molto triste e crepuscolare, un tono poetico che il film non dismetterà ma che alla lunga lo condannerà. In un costante clima plumbeo che fornisce l’impressione che abbia appena piovuto o stia per piovere, Christopher Robin diventerà adulto a Londra dimenticando tutto fino a che, un giorno, per non rovinare il rapporto con sua figlia lascerà il lavoro che lo assorbe troppo per una capatina al bosco dove ritroverà (a fatica) il se stesso di una volta assieme a Pooh, Tigro, Pimpi, Tappo, Ih Oh, Uffa e via dicendo. La loro dolce inettitudine e inadeguatezza alla concretezza della vita adulta lentamente riporterà Christopher Robin ai veri valori infantili.
Ritorno al Bosco Dei 100 Acri punta tutto sulla tenerezza più che sull’intrattenimento (come invece faceva solo un anno fa Peter Rabbit, produzione in tutto e per tutto simile ma decisamente più riuscita e vivace), punta sul dialogo più che sullo stupore, sull’amarezza più che sull’entusiasmo o sull’avventura, rifiutando anche di ricalcare quella che ad un certo punto sembra la sua ispirazione, cioè Hook. La parabola di ritorno al mondo fantastico e al bambino che era da parte di Christopher Robin non passa per un’avventura ma per qualche mesta considerazione e un rocambolesco ritorno finale in città. Un po’ poco per qualsiasi tipo di pubblico ma decisamente nulla per tenere dei bambini bloccati in un cinema per due ore.