La recensione di Ritorno a Seoul, il film di Davy Chou in uscita nelle sale dall'11 maggio
Pochi minuti dentro il ristorante in cui si apre
Ritorno a Seoul e nel quale conosciamo i personaggi principali e già si viene investiti da una qualità intima coinvolgente. Sta tutta nello stile naturalistico della recitazione (almeno all’inizio) e soprattutto nelle scelte di fotografia, la vicinanza ai volti e lo scarso spazio per gli sfondi se non quando indispensabile, i colori decisi e una dedizione evidente alle persone e al linguaggio del corpo.
Davy Chou è concentratissimo su questa scena che è cruciale anche se la prima, è quella che imposta tutto. Parte in media res, con questa ragazza dai lineamenti coreani ma in realtà francese che a quanto pare è in viaggio a Seoul e ha conosciuto un’altra ragazza (locale) che parla francese, ora si è aggiunto anche un altro coetaneo e cominciano a coinvolgere i tavoli intorno. È una scena lunga piena di diverse risate, cibo, alcol, balli e informazioni che serviranno per il resto della storia, a portarla avanti è la tensione di questa protagonista tra due paesi, vitale, decisa, piena di fascino e capace di incuriosire tutti, anche il povero ragazzo che finirà a letto con lei, usato per il proprio piacere e poi sputato.
È un po’ questo il carattere di Freddie, interpretata da Park Ji-min con occhio a mezz’asta e disinteresse per i sentimenti di tutte le persone che non siano lei stessa. Ritorno a Seoul ha questo di immediatamente coinvolgente: la protagonista è una stronza. Capiamo che là a Seoul ci è finita quasi per caso ma gira intorno all’idea di cercare i genitori che la diedero in adozione, è chiaro che per lei la cosa è un problema nonostante agisca con una malcelata noncuranza. Troverà il padre, un uomo derelitto con un carattere così peculiare che non può non essere ispirato alla realtà (Laure Badufle che ha co-sceneggiato il film ha vissuto un’esperienza simile), mentre la madre sembra non volerla incontrare. Il film segue alcuni anni della vita di Freddie, anni di grandi cambiamenti, radicali cambiamenti.
Arrogante, amareggiata, sicura di sé e fastidiosamente altezzosa, Freddie è insopportabile eppure
Park Ji-min mette dentro questo atteggiamento un trauma, mette qualcosa a motivarlo, una specie di istinto distruttivo che sembra venire da una rabbia atavica. Che è la stessa cosa che la rende attraente. Così facendo il film non è mai indulgente con lei, che sarebbe una vittima in teoria, e anzi pone le domande migliori, non soltanto cosa un’adozione faccia ad una persona (che è la domanda che sì farebbe qualunque film sul tema) ma anche fino a dove questo trauma sia rispettabile, quando diventi una giustificazione e quali siano i limiti della ricerca delle proprie origini. Rispetto ai film sui seconda generazione (si pensi al bellissimo
The Farewell) questo è un altro paio di maniche, non c’è astrazione, non c’è retorica, è la dura realtà di questo tipo di rapporti o di traumi che si riverberano in una vita intera senza patria, senza origini, al di fuori da tutto.
Quello che impressiona più di tutto però è come Davy Chou riesca a raggiungere un simile livello mescolando l'astrazione di Refn (nella seconda parte), cioè quella che nasce da ambienti, frequentazioni, comparse e ovviamente luci e musiche particolari, con la concretezza del cinema di ragazzi della prima parte, con ancora dei momenti da Kore-eda di fenomenale comprensione umana in strazianti sequenze di dialogo a tavola. Tutto si tiene insieme perché Park Ji-min dà sempre una grande coerenza al suo personaggio lungo le sue evoluzioni che diventano poi le evoluzioni del film.