Risorto, la recensione
Corretto e chiaro, immacolato e lineare, Risorto proprio per la sua logica manca l'obiettivo di raccontare il formarsi della fede
Adesso che invece i film si sono specializzati, che i punti di vista strani e inusuali sono la regola, possono esisterne versioni come La Passione di Cristo di Mel Gibson (centrata solo su alcune ore di questa grande trama e solo sulla dialettica tra spirito immortale e carne mortalissima) o altre come Risorto (centrata su un personaggio inventato che guarda gli eventi che conosciamo dall’esterno da una prospettiva scettica). A partire proprio dalla crocefissione fino ad arrivare alla resurrezione del titolo, questo film dal chiaro intento catechistico non celebra la mitologia cristologica della salvezza dai peccati, cioè non tramanda proprio l’insegnamento del Nuovo Testamento, ma cerca di riprendere il miracolo della fede, quel momento assurdo in cui un uomo capisce di credere in qualcosa di superiore. In questo però è contraddittorio.
Non meraviglia dunque che ad uno svolgimento così elementare e ad ambizioni così limitate corrisponda una messa in scena corretta e incolore. Sempre tenendo in mente un intento evidentemente catechista (Risorto non è L’ultima tentazione di Cristo, non è fatto cioè per porsi delle domande quanto per fornire risposte) tutto è chiaro e privo di ombre sia metaforicamente che fotograficamente. Tutto il film è mostrato con quei colori saturi che le serie tv hanno abbinato a quell’epoca storica e con la chiarezza espositiva che contraddistingue il cinema più semplice. Non per questo brutto, ma di certo modesto.