Ripley: la recensione
Ripley è il nuovo adattamento in chiave noir del romanzo di Patricia Highsmith ed è probabilmente la serie più bella che vedrete quest’anno
Dal 4 Aprile su Netflix è disponibile Ripley, la nuova miniserie ispirata al romanzo Il Talento di Mr. Ripley, con protagonisti Andrew Scott e Dakota Fanning. Ecco la nostra recensione.
Questa volta si tratta però di una serie, firmata da Steven Zaillian, sceneggiatore premio Oscar per Schindler’s List. La domanda è sempre la stessa: è possibile riadattare una storia cult senza cadere nella trappola dell’inutile remake? La risposta elegante e raffinata di Ripley è sì, ma solo quando si hanno le capacità, l’arte e la maestria di restituire una prospettiva totalmente inedita. Ed è il caso di Ripley.
Tom Ripley: una storia che non smette mai di affascinare
Siamo nella New York del 1961 e Thomas “Tom” Ripley è un piccolo e anonimo truffatore che vive ai margini della società guadagnando con piccole frodi fiscali. Tutto cambia quando viene ingaggiato dal ricco imprenditore nautico Herbert Greenleaf (Kenneth Lonergan). L’uomo lo crede un vecchio amico del figlio Dickie (Johnny Flynn) un mediocre artista che da tempo vive ad Atrani, un paese della Costiera Amalfitana, dove passa le giornate sperperando i soldi del suo fondo fiduciario insieme alla fidanzata Marge Sherwood (Dakota Fanning), aspirante scrittrice.
Il compito è recarsi in Italia e convincere il ricco rampollo a tornare a casa, ma una volta arrivato Tom scopre un mondo fatto di lusso e comodità, di giornate spese al sole sorseggiando Martini e di lunghe passeggiate in città piene di arte e bellezza. Poco a poco Ripley diventerà ossessionato dalla vita di Dickie e il confine tra l’amicizia (o qualcosa in più) con l’uomo e il desiderio di essere lui diventerà sempre più sottile. Pur di preservare l’illusione Tom sarà disposto a creare una fitta rete di inganni, bugie, furti d’identità e omicidi, il tutto nella cornice dell’Italia a cavallo tra gli anni ’50 e ’60.
Un nuovo sguardo
La prima sequenza di Ripley ci mostra un uomo che trascina di soppiatto un cadavere giù per le scale: una scena che acquisterà senso più avanti, come ci indica la scritta “sei mesi prima”. Dopo pochi minuti si delinea quella che sarà per molti versi una detective story al contrario: parte della bellezza di Ripley risiede infatti nella cronaca azione per azione di una mente forse fredda e sociopatica, ma non naturalmente malvagia, che tenta di impadronirsi, anche maldestramente, della vita di un’altra persona.
Dal titolo manca non a caso il sostantivo “talento”: il Tom Ripley di Zaillian ha una predisposizione per la truffa e la falsificazione, ma è più che altro un veloce pensatore, un improvvisatore bravo ad adattarsi e che di volta in volta perfeziona i suoi metodi. Gli otto episodi da quasi un’ora l’uno mettono in scena un intenso thriller psicologico con protagonista un unico sfuggente personaggio. Basando lo storytelling più sulle azioni che sulle motivazioni, Zaillian utilizza uno stile visivo unico e studiatissimo per raccontare il dramma di un outsider esclusivamente attraverso il modo in cui l'uomo si muove nella storia.
Nuove metafore, vecchie allusioni
L’azione di salire e scendere le scale, che in Ripley sono tante, da quelle strette dei vicoli di Atrani a quelle maestose dei palazzi siciliani e romani, diventa metafora della continua e faticosa scalata sociale del protagonista. Al centro della serie c’è infatti il senso di bramosia con cui Ripley osserva le vite degli altri e il modo camaleontico in cui agisce per sentirsi al loro posto.
Se nel famoso adattamento del ’99 l’elemento dell’attrazione sessuale di Ripley per Dickie era molto presente (il film è infatti considerato una pietra miliare del cinema queer), in questa versione la componente omoerotica è più implicita e per questo più interessante e struggente, dove invece sono l’ammirazione, l’invidia e la frustrazione di un uomo ordinario ad essere catalizzanti. Le due trasposizioni raccontano la stessa storia ma non potrebbero essere più diverse, dove se Minghella ci regalava una versione della storia passionale e baciata dal sole, Zaillan è freddo e senza colori. Letteralmente.
Caravaggio VS Hitchcock
Ideata, scritta e diretta da Steven Zaillian, Ripley è una serie d’autore nel senso filologico del termine. La serie è un’opera meticolosamente costruita a livello visivo che fa riferimento ad Alfred Hitchcock e ai classici del noir, oltre che al Neorealismo e al cinema italiano degli anni ’60, grazie anche (se non soprattutto) all’uso del bianco e nero. Tutt’altro che pretenziosa, il bianco e nero è una scelta estetica precisa, elegantissima e coerente con la linea narrativa, anzi essa stessa elemento narrativo (è presente un solo piccolissimo dettaglio a colori, poetico omaggio a Schindler’s List).
La fotografia di Robert Elswit (premio Oscar per Il petroliere) è raffinata e contrastata, con un bianco accecante, un nero tagliente e dei grigi che intensificano i dettagli e scolpiscono i volti. I panorami italiani sono completamente spogliati dei loro colori che altrimenti avrebbero distratto, ma non per questo sono meno mozzafiato, anche se più inquietanti. Al pubblico viene chiesto di spostare l’attenzione dai colori alle forme e dall’insieme ai dettagli, cercando di cogliere le infinite potenzialità delle ombre e della luce. “È sempre la luce” si sente dire Ripley da un prete mentre osserva le opere del Caravaggio, la cui figura ha una valenza estetica e narrativa centrale nella serie: i chiaroscuri tratteggiano la duplicità di Tom, ossessionato dalla vita dell'artista che lui giudica affine alla propria. L’attenzione per la composizione dell’inquadratura è totale ed ogni immagine è un quadro perfetto, ipnotico e attraente, ma anche spaventoso e disorientante.
Quando la forma è il contenuto
Ripley è filmmaking allo stato puro in cui lo strumento cardine dell’arte cinematografica, il montaggio, non racconta una storia, ma diventa esso stesso la storia. Due sono gli episodi emblematici di questa poetica, il terzo e il quinto, entrambi dedicati esclusivamente ad una sola specifica azione, quella di un omicidio, ma soprattutto all’insabbiamento in tempo reale dello stesso. Dove la maggior parte delle narrazioni avrebbe saltato le conseguenze pratiche di un delitto, Zaillian non ha paura di soffermarcisi lungamente ed ossessivamente, ed anzi approfitta del formato seriale per focalizzarsi sulla fatica, sulle modalità scrupolose o improvvisate messe in atto da Ripley, rendendo il procedimento il cuore dell'intrattenimento e dell'approfondimento del personaggio.
Il montaggio è descrittivo e metodico, a tratti esilarante ma stranamente mai noioso, e nonostante la ripetizione continua di dettagli e ambienti già visti la narrazione è avvincente ed immersiva, pervasa da tensione, imbarazzo ed inquietudine che montano lentamente fino a diventare quasi insopportabili. Vi è un’esaltazione dei silenzi e dei tempi apparentemente morti, sottolineati dall’incredibile lavoro del comparto sonoro che amplifica ogni fruscio di fogli, ogni scatto di penna, ogni tintinnio di bicchiere.
Ciò che Tom Ripley fa racconta molto più di ciò che Tom Ripley dice e per questo ai dialoghi si sostituiscono i corpi e i gesti dei personaggi, il modo in cui attraversano la scena e come maneggiano gli oggetti. In Ripley nessuna inquadratura è lasciata al caso e la cura nel production design è stupefacente: all’economia dello storytelling si sostituisce una ricchezza di dettagli incredibile, in cui oggetti banali come un posacenere, un anello, una valigia sono molto più che semplici accessori, ma raccontano l’anima dei personaggi, i loro gusti, quello che sono stati e quello che vorrebbero essere.
Il Talento di Andrew Scott
Tom Ripley è un ruolo iconico interpretato nel corso del tempo da attori del calibro di Alain Delon, Dennis Hopper, John Malkovich (ricordatevi questo dettaglio) e dal più ricordato Matt Damon. Ora è il turno di Andrew Scott, celebre per essere stato l’hot priest di Fleabag e prima ancora il Moriarty di Sherlock. Anche in quest’ultima serie entrava in scena inosservato fingendo inizialmente di essere qualcun altro: l’attore irlandese ha infatti un volto apparentemente anonimo ed inespressivo, ma che se lo si osserva meglio diventa penetrante, capace di mimetizzarsi e contemporaneamente spiccare tra la folla.
Presente nel 90% delle scene, è lui il corpo sulle cui spalle la serie si appoggia e Scott non si tira indietro, lavorando minuziosamente su tanti livelli attoriali, fino a restituire un Ripley inquietante, ambiguo e dal fascino indefinibile. Partendo dalla postura, prima goffa poi sicura di sé, ai gesti, meticolosi e ripetuti; dalla voce suadente o tagliente all’attenzione sull’accento italiano che man mano cambia; dalle microespressioni del volto che quasi si riesce a sentirlo pensare ai piccoli movimenti del corpo, sempre freddi e calcolati.
Scott è alieno e familiare, distaccato ma con uno sguardo paranoico ma che spesso tradisce un desiderio di appartenenza. Nonostante sia il primo attore gay ad interpretare il ruolo, il Tom Ripley di Scott è quasi asessuale, privo del fascino carismatico dei suoi predecessori, ma con una presenza magnetica che però allo stesso tempo lascia addosso uno senso di disagio.
Un cast più maturo
La scelta di attori molto più adulti si differenzia da quella fatta nel ‘99, dove i tre divi hollywoodiani interpretavano dei gloriosi e bellissimi ventenni, più vicini all’età delle loro controparti letterarie, ma in generale dal piglio più seducente.
Come Scott anche Jhonny Flynn, interprete di Dickie, ha uno charme più composto rispetto a quello abbagliante del giovane Jude Law, anche lui ambiguo nell’immobilità delle espressioni e dei movimenti. Dakota Fanning interpreta magistralmente una Marge sospettosa ma non particolarmente intelligente, anche lei grazie ad una recitazione calibratissima fatta di sguardi più che di parole. Scelta interessante e non completamente comprensibile quella di affidare il ruolo dell’amico Freddie Miles, che fu del brillante Philip Seymour Hoffman, all’attore non binario Eliot Sumner, alludendo (forse) alla componente queer della storia in modo meno scontato. Ogni singola performance risponde alla poetica della serie, che predilige lavorare sulla sottrazione come portatrice di senso rispetto all’opulenza e all’eccesso.
Lettera da un’Italia ormai perduta
Ripley è quasi interamente ambientata in Italia e la produzione ha sfruttato l’opportunità impreziosendo il cast internazionale con numerosissimi volti nostrani. Due su tutti, Margherita Buy nel ruolo della portinaia dell’abitazione romana di Ripley, ma soprattutto Maurizio Lombardi, interprete dello sprezzante Ispettore Pietro Ravini, che regala una performance indimenticabile e d'altri tempi (consigliamo per questo la visione in lingua originale, dal momento che la serie è recitata in larga parte in italiano). Diversamente da quanto si potrebbe pensare, le interpretazioni sono calzanti e mai macchiettistiche, anzi al contrario Ripley ritrare una versione del nostro paese quasi priva di stereotipi: ai soliti paesaggi da cartolina con spiagge piene di gente e romantiche gite in gondola, Zaillian preferisce un’atmosfera più cupa e malinconica (non a caso le riprese si sono svolte durante la bassa stagione).
Niente Fiorello che canta “Tu vuò fa’ l’americano” come nella versione di Minghella, al suo posto tanti, tantissimi i chiari riferimenti al cinema italiano degli anni ’50 e ‘60, da Antonioni a Rossellini, e soprattutto Fellini, anche se con meno glamour alla Dolce Vita. Nel corso degli episodi ci spostiamo dalla Costiera Amalfitana a Napoli, da Sanremo a Roma, passando per Palermo fino a Venezia, accompagnati dall’inconfondibile voce di Mina che intona Il cielo in una stanza (la magnifica colonna sonora è curata da Jeff Russo). Zeillian ha trovato (o ritrovato) un modo unico e commovente di raccontare il nostro paese, inquadrando piazze, strade, auto parcheggiate, stazioni, bar, palazzi, musei o albergi con uno stile e una composizione che rimandano ad un’Italia e ad un cinema che non ci sono più e che soprattutto non siamo più noi ad immaginare.
Il lusso del tempo
Se amate il thriller e siete alla ricerca di una nuova serie da guardare o se conoscete la storia e siete curiosi di scoprire questo nuovo adattamento, prima un piccolo avvertimento: Ripley non è di semplice fruizione, richiede impegno, e nell’era dei contenuti da “consumare” velocemente questo forse potrebbe scoraggiare. Ma di prodotti così, anche ottimi, ce ne sono tanti sparsi nei vari supermercati offerti dalle piattaforme streaminged è raro poter godere di qualcosa così squisitamente realizzata e che richiede attenzione e tempo. Nonostante sia disponibile su Netflix nel solito formato intero, Ripley non è una serie da bingewatchare, ma piuttosto da assaporare lentamente.
La serie infatti non vuole convincerci a cliccare compulsivamente sull'episodio successivo, anzi al contrario, la bellezza di Ripley risiede nella magia dell’esperienza della visione, attraente in modo più inconscio e sottile e più duraturo nel tempo. L'eccessiva predominanza della forma rispetto alla sostanza potrebbe essere vista come un difetto, ma quando una bellissima forma è funzionale alla storia che vuole raccontare e lontana dall’essere un mero esercizio di stile, può diventare anche bellissima sostanza.
Netflix alza l’asticella (o quasi)
Nel catalogo di Netflix, che si è da tempo stabilizzato su di un’offerta abbastanza mainstream, Ripley si eleva molto al di sopra dello standard qualitativo medio. Purtroppo non stiamo però parlando di un prodotto originale, ma di una serie che è stata letteralmente salvata da un pericoloso oblio. Ripley è infatti prodotta da Showtime con Edemol Shine North America, Entertainment 360 e FilmRights e in un primo momento doveva essere distribuita da Paramount Global, ma a seguito dei vari cambi di gestione del marchio, Netflix è riuscita ad accaparrarsela. La pre-produzione risale al 2019 e, complice anche la pandemia, a Ripley ci sono voluti cinque anni prima di vedere la luce, un ritardo che ha finito per giovare visto il recente successo di Andrew Scott nel film Estranei (All of Us Strangers), che ha permesso un traino non indifferente per la serie.
Ripley è classificata per adesso come limited series nonostante si parli di una saga letteraria che farebbe sperare in potenziali future stagioni: al momento non ci si sono piani al riguardo, anche perché, stando alle dichiarazioni di regista e attori, la qualità della serie richiede una lavorazione lunga, dispendiosa e faticosa. Per adesso il dato certo è che Neftlix non si stia sbracciando molto a pubblicizzarla, ma questa d’altronde non è una novità nel caso delle serie non originali del colosso americano.
Ripley è però un’opera imperdibile, un classico moderno per usare un ossimoro, che ha saputo dare nuova linfa ad una storia già conosciuta ma mai così magistralmente raccontata. È una masterclass di regia e montaggio, con un cast straordinario, quasi priva di difetti, dallo stile ambizioso, impeccabile e di sorprendente bellezza. Un piccolo gioiello che non si ammirava da tanto, che porta avanti un’idea di stile coerente dall’inizio alla fine e il fatto che prodotti del genere vengano ancora pensati e realizzati fa ben sperare per il futuro. Siamo ancora ad Aprile ma non è troppo presto per dire che Ripley è forse la migliore serie tv che vedrete quest’anno, di sicuro la migliore degli ultimi anni.
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