Rick and Morty (quinta stagione): la recensione

Alla quinta stagione, Rick and Morty si trova nella poco invidiabile situazione di essere un cult al culmine della sua fama

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Rick and Morty (quinta stagione): la recensione

Rick and Morty si trova nella poco invidiabile situazione di essere una serie cult al culmine della sua fama e al suo apice creativo. Potrà andare meglio di così? Difficile. Potrà andare peggio? Senza dubbio. Anche perché lo stesso nucleo della serie la spinge ad invecchiare facilmente: ipercinetica, episodica, con standard altissimi, destinata a ripetersi in un vicolo cieco creativo che non può pretendere altro se non il meglio del meglio. Per quanto durerà? Difficile a dirsi, considerato che South Park – senza dubbio la più equilibrata oggi tra le storiche serie animate per adulti – ha trovato una sua formula, e non è detto che Rick and Morty non faccia lo stesso. Per quanto riguarda questa quinta stagione, che è divisiva e che molti rinnegheranno, la serie di Dan Harmon continua a viaggiare su un livello molto alto.

Sono dieci episodi che offrono tutto ciò che Rick and Morty è stato, soprattutto da quando è diventato un fenomeno pop. Storie svalvolate e deliranti raccontate ad un ritmo altissimo, molto metanarrative, molto creative, assurde, violente. Ci sono le svolte drama in cui la serie si rifugia ogni volta in cui, con una sindrome da BoJack Horseman, decide di voler raccontare il vuoto esistenziale non solo del cosmo, ma dei personaggi. Ma il cuore della serie rimane sempre l'assurdità controllata, il puro piacere dell'incontro tra citazioni pop che non sono fini a se stesse (i Simpson più recenti), ma che in un gioco di scatole cinesi ne contengono sempre altre di inaspettate.

Nei momenti migliori della stagione Rick and Morty riesce ancora a ribaltare i canoni narrativi, una volta dato per scontato che non esiste una barriera che non può essere superata. Mort Dinner Rick Andre è un bottle episode casalingo in cui la semplice richiesta di andare a prendere del vino oltre un portale viene espansa da gag a storyline secondaria in un'escalation senza limiti. In Forgetting Sarick Mortshall, una banale introduzione di due corvi assistenti diventa occasione per costruire tutto un background affascinante, che nemmeno si esaurisce nel corso della puntata come invece ci aspetteremmo. E ancora una parodia di Voltron che poco a poco diventa una farsa con lo stile di Scorsese, e che serve a mascherare tutto un altro riferimento ad un episodio precedente. E così via.

Rick and Morty è ancora quella serie lì. Quello show che ha la capacità di anticipare comunque la propria disfatta rispetto alle attese della rete e rispetto ai canoni del proprio successo. Insomma, non è la parodia di se stessa, ma riesce a incapsulare critiche e problematiche e ad arginarle con successo. Qualcosa è cambiato? Inevitabilmente i rapporti tra i personaggi scivolano verso nuovi equilibri. E non riguarda certo la sottotrama del Beth clone, che nient'altro era se non una trovata nel puro stile della serie, e che non doveva essere approfondita o spiegata ulteriormente. A cambiare è l'infallibilità di Rick, una volta che tutte le persone intorno a lui sono sempre meno impressionate dalla sua genialità.

L'avevamo visto nella stagione precedente, e qui si ripete. Non è strano che Morty se la sbrighi da solo, o viva avventure con Summer. E non è strano che lo stesso Rick possa affezionarsi a qualcuno, o essere costretto – tra mille forzature e risposte sarcastiche – ad ammettere di tenerci ai suoi cari. Da questa frattura nell'armatura del personaggio, che però era sempre esistita come tema, passa la trama orizzontale – a volerne cercare una – di Rick and Morty. E probabilmente è un tratto che peserà sempre di più. Prendere o lasciare.

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