Rheingold, la recensione

Ci vuole una vita intera fatta di ascese criminali, persecuzioni, amori perduti e genitori che abbandonano per creare un vero grande disco

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Rheingold, il nuovo film di Faith Akin presentato alla festa del cinema di Roma

Fatih Akin non ha nessun bisogno di andare a pescare le storie dove le prendono tutti, nei soliti bacini, ma anzi le trova dove sta, nel suo mondo, la sua Germania e la sua passione tanto per la musica quanto per quello che fa alle persone. E anche le sue ispirazioni non le prende mai dove sarebbe più facile immaginare. Rheingold racconta la storia del rapper Xatar, una storia che è prima politica, poi criminale e solo alla fine musicale. Invece di fare un musical sceglie di girare uno Scarface tedesco (storia di ascesa di immigrato), invece di ispirarsi a Scarface direttamente però sembra guardare al cinema europeo d’autore, e poi invece che copiare il cinema d’autore fa di nuovo il giro e torna al genere con un pugno di sequenze di eccezionale livello.

Xatar nasce in una prigione, vive in fuga, cresce in Germania per le strade, impara a menare da un uomo durissimo e poi si dà al piccolo crimine, sviluppando un’ambizione che lo porta a livelli abbastanza alti prima di dover fuggire in Olanda e ancora immergersi nel crimine, rischiando la galera, sempre con un orecchio alla musica. Iraniano di etnia curda, suo padre era un importante compositore di musica classica che ha subito con la famiglia la persecuzione riservata ai curdi. Come il richiamo di una sirena la ricerca musicale fa capolino di continuo lungo quest’ascesa criminale di un uomo dall’intelligenza fina e i pugni durissimi. Tutto fino a che non capiamo che in realtà non stiamo guardando la storia di un criminale, stiamo guardando la creazione di un album che prende forma in poche settimane ma che ha richiesto una vita intera per essere quello che è.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che solo Fatih Akin con la sua sensibilità per la musica poteva subordinare l’azione, le rapine e la violenza a qualcosa di più alto, spargendolo ovunque, facendo battere il cuore a pulsazioni alterne per l’hip hop e poi deflagrando alla fine una passione così forte che la leggiamo non tanto nei suoi di occhi quando in quelli dei compagni di cella di Xatar che lo ascoltano. Lui invece è quasi un protagonista di un film di Raoul Walsh, un self made man di grande autonomia, capace di muoversi in ambiti diversi e dall’eccezionale risolutezza e determinazione, sempre focalizzato all’obiettivo, a suo agio nei salotti come nelle strade. 

Fosse solo questo il pregio di Rheingold però non sarebbe abbastanza. In realtà è la visione di cinema di Akin ad essere, ancora una volta, contagiosa. È la maniera in cui sa far scorrere in tutto il film un racconto parallelo delle peripezie del popolo curdo, il modo in cui sa appassionarsi davvero, sa esplorare ciò che lo esalta e quindi riempire tutto il racconto di dettagli che lo divertono (e lui davvero è una persona che sa come ci si diverte in un film) a infarcire Rheingold di un’epica intellettuale. Così anche il riferimento del titolo a L’oro del Reno (primo dramma teatrale dei quattro che compongono L’anello del Nibelungo, spiegato a dovere nel film) non suona come pomposo ma stranamente adeguato a questo eroe popolano dalle imprese criminali che pare direttamente connesso alle grandi figure mitologiche.

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