Rez Ball, la recensione: uno sguardo sociale più a fuoco del basket nel film sportivo sulle riserve Navajo

La recensione di Rez Ball, il film diretto da Sydney Freeland disponibile su Netflix dal 27 settembre

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Non è un caso se lo sport va così spesso a braccetto con la denuncia sociale. C'è una potenza metaforica e simbolica nel vedere due squadre darsi battaglia su un campo, che permette di sintetizzare concetti complicati come ingiustizia, rivalsa, amicizia e speranza in termini di pura azione dinamica. Rez Ball questa cosa la sa e vuole farla: la squadra liceale della riserva Navajo del New Mexico ha appena perso il suo giocatore migliore, morto suicida in uno dei troppi casi di giovani che non ce la fanno in un contesto piagato da povertà, alcolismo e depressione cronica. La storia di una squadra che ritrova sé stessa è la storia di una nazione nella nazione che cerca la forza di superare il senso di sconfitta ("noi nativi troviamo sempre il modo di perdere. Ce l'abbiamo nel sangue"). Per essere il grande film che a tratti sembra gli manca solo una cosa: capire meglio il senso cinematografico dello sport.

Prima di dire cosa non va bisogna sottolineare ciò che è ottimo, potente, eccezionale in Rez Ball: la descrizione di un contesto sociale di cui si parla sempre in termini vaghi e fatalisti, e che qui invece emerge in modo tridimensionale, vivissimo, vibrante. Nessun altro film aveva mai mostrato la riserva con questo livello di dettaglio e di autenticità: Rez Ball è un film creato, recitato e popolato al 90% da artisti nativi, che, se fosse uscito in sala in un momento di maggior popolarità del cinema, forse avrebbe avuto sulla loro immagine un effetto esplosivo simile a quello avuto negli anni 80-90 dai film di Spike Lee: finalmente una minoranza prende in mano gli strumenti per raccontarsi, esce dagli stereotipi in cui l'hanno confinata troppi film su "indiani e cowboy" e si mostra per ciò che è: un pezzo d'America (nonostante i problemi) normalissimo, dove i ragazzi parlano slang, ascoltano rap e la gente nei fast food e nelle officine segue le gesta della squadra locale.

In questo ritratto il basket ha un ruolo fondamentale, che però purtroppo funziona più come elemento di caratterizzazione che come strumento cinematografico potente e catartico. La sua valenza si vede soprattutto fuori dalle scene giocate: quando la coach (Jessica Matten) spinge i ragazzi a trovare lo spirito di squadra facendogli radunare un gregge di pecore, o quando scopriamo che la madre alcolizzata del protagonista (Julia Jones) era una grande giocatrice che si è lasciata sconfiggere dal disfattismo che tormenta il suo popolo.

Quello che manca a Rez Ball è - per restare in tema - qualcosa di simile all'1 vs 1 fra Ray Allen e Denzel Washington in He Got Game: il grande momento sportivo in cui l'agonismo, i gesti, la lotta fisica e mentale con l'avversario fanno esplodere i temi del film come nessun discorso potrebbe mai fare. Le partite non sono mal girate, ma non "parlano" come dovrebbero, non trovano nella messa in scena del gioco quella capacità di scolpire la lotta esistenziale di un popolo che è chiaramente ciò a cui il film aspira (vedi l'ultima scena). Rez Ball è concepito come un film sportivo, dove tutto il malessere e le speranze che è impossibile raccontare in due ore dovrebbero trovare nel gioco la metafora in grado di sintetizzarle. Il modo in cui prepara il campo è straordinario, e vale da solo più di una visione. Peccato che la partita sia così spenta...

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