Rez Ball, la recensione: uno sguardo sociale più a fuoco del basket nel film sportivo sulle riserve Navajo
La recensione di Rez Ball, il film diretto da Sydney Freeland disponibile su Netflix dal 27 settembre
Non è un caso se lo sport va così spesso a braccetto con la denuncia sociale. C'è una potenza metaforica e simbolica nel vedere due squadre darsi battaglia su un campo, che permette di sintetizzare concetti complicati come ingiustizia, rivalsa, amicizia e speranza in termini di pura azione dinamica. Rez Ball questa cosa la sa e vuole farla: la squadra liceale della riserva Navajo del New Mexico ha appena perso il suo giocatore migliore, morto suicida in uno dei troppi casi di giovani che non ce la fanno in un contesto piagato da povertà, alcolismo e depressione cronica. La storia di una squadra che ritrova sé stessa è la storia di una nazione nella nazione che cerca la forza di superare il senso di sconfitta ("noi nativi troviamo sempre il modo di perdere. Ce l'abbiamo nel sangue"). Per essere il grande film che a tratti sembra gli manca solo una cosa: capire meglio il senso cinematografico dello sport.
In questo ritratto il basket ha un ruolo fondamentale, che però purtroppo funziona più come elemento di caratterizzazione che come strumento cinematografico potente e catartico. La sua valenza si vede soprattutto fuori dalle scene giocate: quando la coach (Jessica Matten) spinge i ragazzi a trovare lo spirito di squadra facendogli radunare un gregge di pecore, o quando scopriamo che la madre alcolizzata del protagonista (Julia Jones) era una grande giocatrice che si è lasciata sconfiggere dal disfattismo che tormenta il suo popolo.