Revenant - Redivivo, la recensione

Girato per non assomigliare a niente ed essere qualcosa di mai visto, Revenant è un western molto classico deformato alla ricerca del realismo

Critico e giornalista cinematografico


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In occasione dell’uscita di Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, Quentin Tarantino raccontò di aver amato molto la prima scena, quella in cui il protagonista si rompe una gamba ma lo stesso riesce a trascinarsi fuori da una cava d’argento e strisciare attraverso il deserto fino alla salvezza. In realtà noi lo vediamo solo iniziare a strisciare nel deserto, per poi capire che ce l’ha fatta nella scena seguente, ambientata anni dopo. Tarantino diceva che in quell’ellissi c’è tutto un altro possibile film non girato, uno su come quest’uomo così tenace non è morto ma ha attraversato chissà cosa per tornare a casa solo armato della sua rabbia.

Quel film ora esiste e si intitola Revenant.

L’opera di Iñarritu è in realtà una storia molto classica che viene distorta, manipolata e mascherata da un esasperato realismo (raggiunto con molta computer grafica) fino a sembrare irriconoscibile. È una trama western convenzionale, un film di vendetta come l’avrebbe potuto fare Leone o anche un regista più classico come Wellman, quella di un uomo cui viene ucciso il figlio davanti agli occhi mentre è inerme e vive per ritrovare quell’assassino in mezzo alle immensità delle terre di confine. Una storia ambientata nel west innevato come Il Grande Silenzio di Corbucci (con cui ha in comune la quasi afonia del protagonista, dettaglio tipico da spaghetti western), piena di attacchi di indiani e con un gran duello finale. Ne è ultimo indizio anche la psicologia, il costume e l’atteggiamento del fantastico villain di Tom Hardy, che regala una performance magistrale, sottile e profonda, piena di umanità ed egoismo. L’esatto opposto dello scarso margine di manovra che ha invece DiCaprio, confinato in un personaggio che parla poco, ringhia molto e dovrebbe comunicare con il corpo. Quello stile di recitazione però, si sa, non è quello in cui eccelle l’attore e il risultato è il minimo dell’incisività a fronte del massimo della presenza sullo schermo.

Quello che Iñarritu desidera però è altro, è realizzare un’idea di cinema estremo, un naturalismo esasperato

Quello che Iñarritu desidera però è altro, è realizzare un’idea di cinema estremo, un naturalismo esasperato che, a partire dalla lavorazione e fino alle scelte di fotografia dalle sole luci naturali (e quasi solo al tramonto), mette in scena la violenza e la brutalità, l’uomo come animale in mezzo agli altri animali, braccato dai suoi pari, dalla fauna e dalle temperature. E forse questa è la parte più sorprendente di un film decisamente troppo lungo, la maniera in cui la morte sia una presenza fissa, una sorta di andamento da road movie malato, simile molto alla spirale infernale di Apocalypse Now!, durante il quale il protagonista, di stazione in stazione, incontra solo follia e morte, massacro e sangue, organi interni e un freddo che sembra uccidere anche la flora.

La scena dell’attacco dell’orso è effettivamente un momento di brutalità mai visto, dotata di un realismo eccezionale (ed è una vittoria il fatto che sia quella con il più grande uso di effetti digitali) e imposta il tono per tutto ciò che segue, per un tenace conflitto all’insegna della vita.

Non ci sono dubbi riguardo alla meraviglia del lavoro di Emmanuel Lubetzki, direttore della fotografia che fonde l’estetica maturata con Terrence Malick alla fluidità di una steadycam che sembra fluttuare come nel Faust di Sokurov anche nelle molte scene d’azione riprese come raramente si è visto. Di perplessità è invece forse lecito averne riguardo le esplicite aspirazioni poetiche del regista, che tempesta il viaggio del protagonista di eventi clamorosi e premonitori, meteoriti che gli passano sulla testa, valanghe dietro di lui e passaggi d’animali, una natura indifferente e più grande dell’uomo nei riguardi della quale però c’è un’esasperato piacere della contemplazione a fronte del minimo senso. Una sottolineatura estrema ed esagerata, una ricerca del bello e del leccato che stona con gli intenti e lo stile del resto del film.

Non c’è bisogno di rievocare Corvo rosso non avrai il mio scalpo e la sua effettiva dimensione di realismo poetico riguardo il rapporto che può esistere tra uomo e grandi paesaggi naturali, perché lì il percorso scelto è il minimalismo. Forse, per amare questo film che ha non pochi elementi per farsi voler bene, è più opportuno guardarlo come un film di vendetta duro e amaro, come un parente di The Grey (meno ambizioso ma decisamente più onesto e quindi più riuscito) o uno spaghetti western sobrio.

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