Retribution, la recensione

Il ritorno al film di Nimrod Antal passa per una sceneggiatura determinata a non inventare niente in Retribution diventa un thriller teso

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Retribution, il film con Liam Neeson, in sala dal 26 ottobre

Se si esclude il film romeno A Viszkis, erano dieci anni che Nimrod Antal non dirigeva un film. Se si esclude il film concerto dei Metallica (bellissimo proprio perché tanto “film” quanto concerto) sono passati 13 anni dall’ultimo film di finzione, Predators. E sono poco meno di 20 anni quelli passati da quei tre film di serie B (Kontroll, Vacancy e Blindato) che l’avevano rivelato come un regista fuori dal tempo, con un controllo della messa in scena e un’asciuttezza di tempi, una determinazione verso l’obiettivo di ogni snodo narrativo e un disprezzo per qualsiasi retorica che ricordano il cinema americano anni ‘70. Ora, 20 anni dopo Kontroll, torna a qualcosa di vagamente simile a quei film, cioè Retribution, un thriller tutto in auto in cui Liam Neeson è l’uomo ordinario in una situazione straordinaria.

La sceneggiatura è di Alberto Marini, mestierante del genere tra Italia e Spagna, produttore esecutivo e sceneggiatore, abituato a copioni senza sorprese che rispettano tutte le regole senza inventarsi un bel niente. E Retribution è quel film lì, uno di quelli in cui un padre di famiglia tutto lavoro e poca attenzione ai figli, attraversa un processo di purificazione nella maniera più complicata, dolorosa e folle possibile, cioè con una bomba a pressione sotto il sedile. Non si può alzare altrimenti esplode. I figli non possono scendere altrimenti l’uomo che ha piazzato l’ordigno fa esplodere tutto. Non può deviare dal percorso che gli viene ordinato di compiere altrimenti esplode.

Antal è abilissimo a sistemare anche le idiozie più plateali di questa sceneggiatura marginalizzandole nella messa in scena, lavorando di non detti e suggerendo tutto con le immagini prima che arrivino le parole. Pur volendo assomigliare a mille altri film, Retribution riesce a sbagliare pochissimo. Certo non c’è molto altro al di là di questa storia di un analista finanziario che la polizia pensa abbia rapito i figli e che sta cercando invece di salvarli mentre gli viene chiesto di liberarsi dei soldi dei suoi clienti. Fa ridere anche la sola idea che Retribution possa ambire a dire qualcosa su finanza, capitalismo e via dicendo. Non è quel tipo di film. E quando il protagonista finisce nel mezzo di una protesta studentesca con il suo SUV Mercedes tutto distrutto senza più sportelli l’immagine che si crea sembra più frutto del caso che di una pianificazione politica che nel film è assente. Il punto di un’operazione come questa è tutto nella tensione, nella possibilità di Liam Neeson di affermarsi come un eroe d’azione senza dover essere il classico duro che è finito a interpretare per anni (ma a un certo punto lo dice, al suo aguzzino dice al telefono che lo troverà e lo ucciderà, il suo tormento non riesce ad abbandonarlo). 

La missione vera di un film come Retribution è riuscire a creare l’illusione di plausibilità nella storia di questo padre come molti che, in circostanze straordinarie, trova dentro di sé la determinazione e il coraggio dell’eroe d’azione. Ha senso se riesce a tenere il pubblico con sé nonostante tutto, nonostante la palese assurdità di quel che avviene. Ha senso insomma se riesce a far trionfare la fattura sulla scrittura. E in un certo senso sì, ci riesce.

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