Residenti Evil: The Final Chapter, la recensione

Perfettamente in linea con tutta la serie Resident Evil: The Final Chapter, chiude il franchise con la sua solita mescolanza di alto e basso

Critico e giornalista cinematografico


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“Al di là del bene e del male” è un’iperbole molto abusata ma se ha un senso davvero è per la serie di Resident Evil. Uno o due film sono incensabili o criticabili, tutta una serie di film prodotti in questa maniera, con questi standard, quest’atteggiamento e questo successo sono davvero indiscutibili. Sono al di là del bene e del male. Come il whiskey Resident Evil può essere difficile da mandare giù al primo sorso, ma più se ne ha più si entra in linea con quel gusto e se ne sviluppa una passione malata.

Parliamo di quello che forse è il franchise di serie B a maggior budget mai prodotto, uno sforzo produttivo e immaginativo incredibile per una serie di film di incredibile bassezza e ammirabile concentrazione sulla sola azione. Così tanto concreti da aver creato un’estetica e un mood unici da che nascevano estremamente derivativi.

Anche Paul W. S. Anderson che della serie di film è lo “showrunner”, il creatore e l’animatore principale (ma non sempre il regista), non è mai stato così in forma, o forse sarebbe meglio dire non ha mai realizzato male film così buoni e interessanti. Perché in Resident Evil non è mai la qualità singola a contare, come non contano le terribili, implausibili, incoerenti e ingiustificabili ingenuità, ma il prodotto nel suo insieme. Anche qui il riassuntone della trama iniziale non fa che enfatizzare buchi e assurdità di tutta la parabola di Alice.
L’unico possibile referente visivo è un videogioco ma non della serie omonima, è semmai Final Fantasy, per l’accozzaglia di immaginari differenti uniti in un patchwork che non è chiaro come ma funziona.

Resident Evil: The Final Chapterm, di nuovo animato da una Milla Jovovich che non è niente meno che straordinaria, aggiunge un altro film alla massa di iniezioni: Mad Max. Torniamo a Racoon City, che è diventata un luogo da wasteland milleriana, e ci sono mostri volanti da evitare con la tranquillità tipica di Alice, ci sono automezzi abbandonati da usare, tecnologia di un passato che sembra prenucleare e desolazione, la “Ambrella” Corporation (come viene pronunciata da sempre nel doppiaggio della serie) ha attirato qui il suo nemico principale che si rivelerà stavolta alleata in un piano per ripristinare la vita come la conoscevamo (un piano semplicissimo che viene enunciato un numero di volte esorbitante per assicurarsi che tutti, anche i sordi in ultima fila abbiano capito).

A quest’ultimo destruction derby, quest’ultima festa delle capriole di Alice, dunque non manca nessun elemento distintivo che rende i film Resident Evil inspiegabilmente godibili oltre ogni gusto.

C’è Red Queen, l’intelligenza artificiale dalle fattezze di bambina che fa facce truci non è ben chiaro perché (è un computer!), ci sono quei dialoghi surreali in cui sembra che nessuno ascolti cosa hanno detto o chiesto gli altri ma enunci quel che ha da dire e c’è un esercito di donne che menano come uomini. Perché in Resident Evil, sulla scia creata da Milla Jovovich, qualsiasi personaggio femminile dimostra forza e resistenza come un uomo, non in senso quantitativo ma proprio in senso qualitativo, non sono donne forti ma donne che si comportano come uomini.

Ma ancora ci sono le morti che dovrebbero creare empatia non fosse che riguardano persone che a stento conosciamo (e a stento conosce anche Alice nonostante la sua disperazione!) e ovviamente ci sono i consueti modi inutilmente elaborati di menare, punirsi, vessarsi e torturare. Perché anche in quest’ultimo film nulla avviene per logica, tutto avviene per quel gusto tra il kitsch, l’horror, il gore e il terra terra che per anni abbiamo chiamato Resident Evil. Ed è il miglior complimento gli si possa fare.

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