Resident Evil: Welcome To Raccoon City, la recensione
Una cospirazione farmaceutica raccontata con il tono dei film di Carpenter è la maniera in cui Resident Evil Welcome To Raccoon City interpreta il presente
È un’unica lunga notte di pioggia che i protagonisti si prendono tutta in pieno, come in Hard Rain, quella che ci accompagna per almeno tre quarti di Resident Evil: Welcome To Raccoon City. Una notte di pioggia accompagnata dal suono elettronico d’atmosfera calcato su quello di John Carpenter, come del resto tutto il film sarà modellato su quell’estetica e soprattutto su quei tempi dilatati nei quali far comunque avvenire l’azione (ma anche su quei font!). È senza dubbio la parte migliore di un ottimo film, quella in cui viene creata Racoon City come ambientazione, un luogo che sembra già una città fantasma, abitata da relitti pronti ad essere attivati e che ben presto fantasmi lo saranno perché, lo scopriamo ben presto, la città verrà distrutta all’alba.
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Johannes Roberts fa un lavoro pazzesco di ambienti, crea una mappa fedele al gioco e dotata di una grandissima personalità, gli ambienti, le strade, le stazioni di polizia e la grande villa vivono sia del proprio modello che di una loro presenza. A partire da questo, dalla scenografia e dalla maniera in cui è illuminata (di nuovo, fedelmente alla saga ma in questo caso ai capitoli più avanzati con grafiche più raffinate) tutto il film può permettersi di trascurare la sua trama convenzionale e concentrarsi su creare una nuova visione di Resident Evil al cinema, una maniera ancora sconosciuta al cinema di leggere il racconto della mostruosità umana che crea mostri mutanti.
In un momento in cui nessuno ancora lo ha fatto è questo Resident Evil, tra tutti, il film che tra diversi anni guarderemo per ricordare l’aria che si respirava nel 2021.
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