Resident Evil (stagione 1): la recensione

Resident Evil si stacca nel modo più clamoroso dal franchise di riferimento e tenta una strada tutta sua, ma inciampa nel percorso

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La recensione della stagione 1 della serie Resident Evil, in arrivo il 14 luglio su Netflix

Vi avevamo già anticipato qualcosa sulla stagione 1 di Resident Evil, la serie realizzata per Netflix, qui, lasciando in sospeso ogni giudizio nell’attesa di poter vedere l’opera completa. Ora l’abbiamo fatto e torniamo da voi con qualche certezza in più. Innanzitutto il fatto che Andrew Dabb è un coraggioso, o uno scriteriato, o una letale combinazione delle due: il suo Resident Evil non c’entra quasi nulla con tutto il resto della produzione (videoludica, cinematografica, televisiva, letteraria) legata al franchise. Potrà sembrare buffo o paradossale ma assomiglia di più, nelle intenzioni almeno, a una serie ispirata a The Last of Us, con più di un pizzico di The Walking Dead, un’abbondante spruzzata di teen drama, un tocco di Westworld e qualche sporadica incursione nell’assurdità quasi whedoniana. Un mix sulla carta interessante, ma che per principio respingerà gran parte del fandom della saga.

Una storia ideata per svilupparsi in più stagioni

Un’altra certezza che abbiamo è che Andrew Dabb è abbastanza sicuro di sé e delle sue idee (e ha avuto abbastanza esperienza con Supernatural, come ha raccontato qui) da aver immaginato una storia che deve necessariamente essere spalmata su più stagioni. In altre parole la prima stagione di Resident Evil non ha alcuna intenzione di chiudersi dandoci tutte le risposte e concludendo anche solo uno dei tanti archi narrativi introdotti nei primi otto episodi. È chiaro che c’è una visione di fondo e un endgame (curiosamente simile a quello di un’altra serie Netflix di matrice videoludica come Arcane), ma è anche evidente che la serie non è ancora interessata ad arrivarci, e Dabb ha ancora parecchie idee da gettare nel calderone prima di tirare le fila della vicenda di Jade e Billie.

Resta tutta da verificare la capacità della serie di resistere alla prima, inevitabile tempesta di sterco che la seppellirà quando uscirà. Non perché sia un prodotto tanto peggiore di altri o meritevole di sberleffi, quanto perché come abbiamo già detto e ribadito c’è pochissimo Resident Evil in questo Resident Evil. Persino i pochi volti noti ci vengono presentati in una luce completamente diversa da quella sotto la quale li ha conosciuti chi frequenta l’universo narrativo del videogioco. Non crediamo di fare una previsione azzardata se diciamo che una delle critiche più diffuse che riceverà questa serie sarà “a questo punto cambia i nomi e inventati un franchise nuovo invece di sfruttare la fama di un universo narrativo con il quale ti interessa pochissimo interfacciarti”.

Sarebbe quindi corretto valutarla per quello che è e non per quello che il suo nome le impone di essere. In questo senso è innegabile che l’impianto costruito da Dabb sia affascinante. L’idea di raccontare due linee temporali diverse in contemporanea, e di farle continuamente parlare tra loro anche in termini di montaggio, è utile a tenere alto il ritmo, e funziona molto bene la scelta di distribuire tra passato e presente gli indizi necessari a risolvere gli infiniti misteri che la serie propone – evitando così il rischio che le scene ambientate nel passato siano poco più che spiegoni necessari a rendere comprensibili quelle nel presente.

I punti di forza del progetto

La scelta non paga però sempre: soprattutto negli ultimi episodi, il continuo saltare avanti e indietro nella storia, unito al moltiplicarsi dei personaggi che sono attivi in entrambe le linee temporali, genera parecchia confusione, e fin troppe scene nelle quali serve qualche secondo di troppo per orientarsi cronologicamente. La voglia di mystery a tutti i costi si riflette anche nella meccanicità di certe soluzioni, complicate apposta e a volte contro ogni logica pur di portare la storia nel punto in cui la si vuole portare. Ci sarebbero anche appunti da fare sul budget e quindi sull’estetica di Resident Evil (e in particolare sulla sua fissazione morbosa per le scene inutilmente buie), ma per quello abbiamo ormai imparato che con le serie Netflix va così: raramente la prima stagione viene lanciata al massimo della sua potenza, come se la piattaforma di streaming volesse capire se ci piace la brutta copia prima di presentarci la bella.

Il vero motivo per cui Resident Evil potrebbe non essere condannata in partenza all’oblio eterno è però il casting: Lance Reddick ed Ella Balinska ci regalano due personaggi che abbiamo già voglia di rivedere in una nuova stagione, e un plauso particolare va fatto alle due giovani Jade e Billie (Tamara Smart e Siena Agudong), adolescenti credibilissime che da sole rendono sopportabili certi eccessi da teen drama dei quali avremmo fatto a meno (non riescono invece a rendere sopportabile la colonna sonora composta al 95% da cloni malriusciti di Billie Eilish). Se c’è una speranza di rivedere Resident Evil con una seconda stagione è tutta appoggiata sulle spalle dei suoi protagonisti: saranno larghe abbastanza da difenderla dall’orda inferocita del fandom?

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