Resident Evil: L’isola della morte, la recensione

Resident Evil: L’isola della morte è un film con moltissimi difetti, ma che potrebbe anche intrattenere gli spettatori meno esigenti

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Sin dal suo annuncio, Resident Evil: L’isola della morte ha suscitato negli amanti della saga Capcom sentimenti contrastanti. Da un lato c’era senza dubbio la curiosità di vedere un film in computer grafica con i principali protagonisti della serie uniti per la prima volta per far fronte a una minaccia comune. Dall’altro, però, c’era la paura che si trattasse di un’opera di mero fanservice, privo di particolari guizzi creativi. Una paura sensata, vista la scadente qualità di Resident Evil: Infinite Darkness, miniserie pubblicata su Netflix nel luglio del 2021.

Come le tre precedenti pellicole della serie (Degeneration, Damnation e Vendetta), anche L’isola della morte si presenta come un prodotto “canon friendly”. Con questa definizione, Capcom può scegliere gli elementi narrativi da considerare “canonici”, dimenticandosi invece di tutto ciò che reputa dannoso per la saga. Una mossa furba, ma che colloca questa quadrilogia in una sorta di limbo. Troppo specifica per il pubblico più casual, troppo incoerente per il vero appassionato.

Sarà riuscito lo sceneggiatore Makoto Fukami a compiere il miracolo, oppure ci troviamo di fronte all’ennesimo tentativo cinematografico di tradurre il mondo di Resident Evil?

“AVENGERS” UNITI!

San Francisco, 2015. Qualcosa di strano sta accadendo sull’isola di Alcatraz. Alcune persone che hanno visitato la struttura sono risultate positive al Virus-T e si sono trasformate in zombie, attaccando poi i propri cari. Persino i pesci che nuotano attorno all’isola risultano contaminati con lo stesso ceppo del virus creato dalla Umbrella Corporation. Per tentare di scoprire cosa stia accadendo, Rebecca Chambers, Chris e Claire Redfield decidono di reclutare Jill Valentine, loro vecchia conoscenza rimasta traumatizzata dagli eventi di Resident Evil 5. Nel frattempo, Leon Kennedy indaga sulla scomparsa di un ingegnere di robotica, inseguito da una furiosa Maria Gomez (vista in Resident Evil: Vendetta), decisa a fare di tutto per ucciderlo.

Il punto di forza di Resident Evil: L’isola della morte è anche la sua più grande debolezza. È innegabile: vedere tutto il cast della saga Capcom unito fa scorrere un brivido lungo la schiena, peccato però che questo comporti uno scarso approfondimento di ognuno dei personaggi. L’unica a ricevere le giuste attenzioni è Jill Valentine, ma il suo percorso di maturazione all’interno della pellicola è tanto blando quanto poco interessante. Tutti gli altri eroi sembrano invece avere una singola caratteristica psicologica, che il film si impone di ricordarci durante ogni dialogo. Chris deve essere quello determinato, Leon quello che pronuncia frasi da eroe dei film degli anni Ottanta e così via. Il risultato: un susseguirsi di scene che sembrano più uno showreel dei vari personaggi, piuttosto che una vera e propria storia. Storia che, purtroppo, risulta molto debole.

UN VILLAIN PROBLEMATICO

Quando si sono formati gli Avengers per la prima volta è stato per combattere una minaccia che, da soli, nessuno dei singoli eroi sarebbe riuscito ad affrontare. Un pericolo mortale che avrebbe potuto cambiare il mondo per come lo conosciamo. Ecco, in Resident Evil: L’isola della morte manca proprio un motivo sensato per cui ritrovare tutto il cast della saga.

La colpa è soprattutto di Dylan Blake, villain della pellicola che a un primo sguardo sembra potenzialmente interessante, ma che se analizzato si rivela non solo incoerente, ma persino nettamente meno pericoloso di tutti gli altri folli avversari incontrati da Chris, Jill e compagnia. Il film tenta costantemente di puntare i riflettori sul passato di Dylan, ma si tratta di sequenze banali e incapaci di costruire una psicologia solida del personaggio. Un vero spreco, che purtroppo influenza l’intera pellicola, donando alla storia un “livello di pericolo globale” troppo basso per poter giustificare un team-up tanto importante.

FRENESIA E FRAMMENTI

Nonostante i personaggi risultino qualche volta un po’ legnosi, il lavoro fatto da Quebico TMS Entertainment è di buona fattura. Le sequenze d’azione, spesso esagerate e frenetiche, risultano comunque appaganti, pur andando contro ogni senso logico. Personaggi che compiono salti di diversi metri, che cadono da altezze elevate senza subire alcun danno e sollevano oggetti pesanti centinaia di chili sono infatti all’ordine del giorno. Questo potrebbe dare fastidio a coloro che cercano un’opera più realistica, ma che si troveranno di fronte a una sorta di videogioco non interattivo, dove la “dissonanza ludonarrativa” permette diverse concessioni.

Il problema di far sembrare tutto un videogioco, però, è evidente anche nei cambi scena e nella regia, spesso tagliata con l’accetta. Il risultato è talvolta straniante e si ha la sensazione di aver visto un insieme delle cut-scene, senza aver avuto l’occasione di mettere mano al pad. Come già accennato, sembra che Eiichirô Hasumi abbia voluto dirigere un film pensato per promuovere il ricco cast di personaggi, piuttosto che per raccontare una storia fluida e avvincente. Un vero peccato.

Resident Evil: L’isola della morte è un film con tanti problemi. Allo stesso tempo, però, non nascondiamo di esserci trovati un paio di volte con il sorriso stampato in faccia per la presenza di tutti gli eroi della saga finalmente uniti. È un film che ci sentiamo di consigliare a chiunque? Assolutamente no. Se non siete videogiocatori, probabilmente troverete la pellicola così raffazzonata da darvi fastidio. Se siete dei fan sfegatati della serie Capcom, al contempo, potreste scandalizzarvi di fronte ad alcune incoerenze narrative. Se, invece, state nel mezzo, forse potreste passare un’ora e mezza spensierata. Di sicuro ci aspettavamo di più da un film tanto importante e speriamo che la software house nipponica decida di continuare con queste pellicole in computer grafica, curando maggiormente il comparto narrativo a costo di sacrificare il mero fanservice.

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