Reservation Dogs (prima stagione): la recensione
Prima serie interamente creata da una squadra nativa americana, Reservation Dogs è una commedia adolescenziale amara e surreale
È quasi un peccato che Reservation Dogs porti attaccato il nome di Taika Waititi, uno dei due autori e creatori della serie. Perché Waititi è ormai una celebrità che si porta appresso una lunga lista di aspettative, e la sua presenza nella squadra creativa rischia di distrarre dal fatto che la nuova serie di Star è prima di tutto opera di Sterlin Harjo, che l’ha co-creata, ne ha scritti cinque episodi su otto e ne ha diretti tre.
Per farla più breve, Reservation Dogs racconta, filtrata dagli occhi ancora parzialmente innocenti (ma comunque più cinici e disillusi di quello che dovrebbero essere a quell’età) dell’adolescenza, la vita di una fetta di popolazione americana largamente sottorappresentata e che per decenni è servita solo a fornire facili bersagli a gente bianca con pistole e fucili. Reservation Dogs però è anche e soprattutto una commedia, per ammissione dei suoi stessi autori; e quindi dipinge una situazione di disagio assoluto senza mai prenderla troppo sul serio o trasformarla in un’occasione per fare prediche. Harjo conosce la situazione delle riserve indiane e ce la presenza senza abbellimenti, ma lui e Waititi sanno anche come si scrivono personaggi a cui è facile affezionarsi e senza i quali il ritratto sociale non avrebbe lo stesso impatto.
C’è infine una storia che, come i suoi protagonisti, non va davvero da nessuna parte; e che vale la pena scoprire senza saperne nulla, in ossequio all’idea che il viaggio sia più importante della destinazione. In termini puramente televisivi questi otto episodi di Reservation Dogs sono un lungo prologo, una Classica Prima Stagione nella quale non si osa troppo per non rischiare di trovarsi con una serie cancellata e un lavoro lasciato a metà. Le premesse ci sono e le promesse anche; attendiamo con pazienza.