Reservation Dogs (prima stagione): la recensione

Prima serie interamente creata da una squadra nativa americana, Reservation Dogs è una commedia adolescenziale amara e surreale

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Reservation Dogs è su Star di Disney+

È quasi un peccato che Reservation Dogs porti attaccato il nome di Taika Waititi, uno dei due autori e creatori della serie. Perché Waititi è ormai una celebrità che si porta appresso una lunga lista di aspettative, e la sua presenza nella squadra creativa rischia di distrarre dal fatto che la nuova serie di Star è prima di tutto opera di Sterlin Harjo, che l’ha co-creata, ne ha scritti cinque episodi su otto e ne ha diretti tre.

Harjo è un nativo dell’Oklahoma e anche un nativo americano, membro della Seminole Nation of Oklahoma, e come lui lo è anche gran parte del cast e della crew dietro a Reservation Dogs (guarda il trailer). Che dunque, prima ancora di presentarsi per le sue qualità, lo fa con un piccolo record: mai una serie americana aveva avuto una presenza così nutrita di nativi nella squadra produttiva, e mai era stata girata interamente in Oklahoma, e in territorio nativo per di più. Il “reservation” del titolo, eco del titolo originale di Le iene, è anche il primo descrittore che serve per capire la serie: è ambientata in una di quelle che ancora oggi si chiamano “riserve indiane”, una porzione di terra concessa a una tribù nativa e che risponde legalmente non al governo statale ma al Bureau of Indian Affairs. E racconta la vita di un gruppo di adolescenti vagamente stephenkinghiani e le loro avventure in cerca del denaro necessario ad andarsene da lì e trasferirsi in California.

Gente

Per farla più breve, Reservation Dogs racconta, filtrata dagli occhi ancora parzialmente innocenti (ma comunque più cinici e disillusi di quello che dovrebbero essere a quell’età) dell’adolescenza, la vita di una fetta di popolazione americana largamente sottorappresentata e che per decenni è servita solo a fornire facili bersagli a gente bianca con pistole e fucili. Reservation Dogs però è anche e soprattutto una commedia, per ammissione dei suoi stessi autori; e quindi dipinge una situazione di disagio assoluto senza mai prenderla troppo sul serio o trasformarla in un’occasione per fare prediche. Harjo conosce la situazione delle riserve indiane e ce la presenza senza abbellimenti, ma lui e Waititi sanno anche come si scrivono personaggi a cui è facile affezionarsi e senza i quali il ritratto sociale non avrebbe lo stesso impatto.

Senza entrare troppo nel dettaglio, i quattro protagonisti di Reservation Dogs sono uno dei cast migliori e meglio assortiti degli ultimi dieci anni di TV, e il loro legame è talmente credibile da farci dimenticare che siamo di fronte a una finzione – Harjo flirta molto delicatamente con un certo approccio quasi documentaristico al racconto dell’America rurale, a tratti sembra una sorta di Larry Clark senza il sesso, ma macchiato comunque di quell’ottimismo aprioristico e quell’amore per i buoni sentimenti che Waititi ha messo in mostra soprattutto in JoJo Rabbit. E anche stilisticamente Harjo gioca all’ispirazione continua senza mai scadere nel citazionismo diretto: c’è molto western in certi campi lunghissimi, ma anche inevitabilmente Tarantino, e i Coen di Fargo virati Goonies; c’è tanta voglia di sperimentare e di fare le cose che la trama suggerisce di fare, e poco rispetto per i canoni del prodotto televisivo standard.

Reservation Dogs gruppo

C’è infine una storia che, come i suoi protagonisti, non va davvero da nessuna parte; e che vale la pena scoprire senza saperne nulla, in ossequio all’idea che il viaggio sia più importante della destinazione. In termini puramente televisivi questi otto episodi di Reservation Dogs sono un lungo prologo, una Classica Prima Stagione nella quale non si osa troppo per non rischiare di trovarsi con una serie cancellata e un lavoro lasciato a metà. Le premesse ci sono e le promesse anche; attendiamo con pazienza.

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