Remi, la recensione

Ultimo del filone del cinema di montagne e romanzi diventati anime, Remi risponde allo schema classico ma introduce una cura maggiore

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Da Belle e Sebastien in poi il cinema franco-tedesco-svizzero sta sfruttando più che può le storie di montagna e animali, storie tradizionali possibilmente rilanciate negli anni ‘80 dall’animazione giapponese. Così dopo la storia di Belle (un successo tale da giustificare un sequel) è arrivata Heidi e ora Remi (in mezzo anche Abel - Il Figlio Del Vento), tutte o quasi capaci di accoppiare noti attori nel ruolo di nonni/mentori e bambini esordienti nelle parti protagoniste (Bruno Ganz per Heidi, Jean Reno per Abel). Tocca a Daniel Auteuil stavolta il ruolo del violinista che aiuta l’orfanello Remi a trovare la sua voce (letteralmente) e a ricongiungersi con i genitori perduti (senza dimenticare cane e scimmietta al seguito) ma per il resto lo schema è sempre quello.

Montagne, animali, bambini e nonni, il format è chiarissimo e ha successo oggi come 30 anni fa in animazione, come più di cento anni fa su pagina scritta (il romanzo Senza famiglia di Hector Malot del 1878). Rispetto agli altri film che l’hanno preceduto però Remi opta per una patina molto più marcata, per uno stile visivo sempre chiarissimo ma decisamente più ricercato, in cui la natura non è contemplata ma organizzata in piccoli quadri dove la luce e le figure umane giocano un ruolo paritario. Remi non vuole essere sciatto come i suoi pari, desidera essere migliore, ha animali molto meglio addestrati, location particolari e una patina idealizzata che fa sì che tutti i vestiti o le copertine siano stirati e pulitissimi, anche quando vengono descritti come lisi.

Non stupisce se si pensa che il regista, Antoine Blossier, viene da un genere preciso e attaccatissimo ai dettagli visivi come l’horror (ha esordito con i cinghiali mannari di Prey).

In questo mondo le cui dinamiche non sono state alterate e dunque risultano fedelmente lontanissime da quelle moderne, nel quale le differenze sociali, economiche e sessuali sono abissi e in cui i brutti sono anche cattivi e i belli sono sempre buoni, agiscono forze dickensiane.

A differenziare Remi da tutto quello che lo circonda (ovvero il complesso di cinema e serialità per l’infanzia) è quindi la componente fortemente tragica per nulla edulcorata. Come il racconto d’altri tempi che è Remi non sfugge ma anzi lavora bene sulla tragedia, preparandola, calcando la mano e “godendosela” come si poteva godere una volta delle storie tragiche per le quali piangere e in questo modo sciogliere i propri di drammi.

Semmai sarebbe da chiedersi che appeal possa avere tutto ciò per un bambino che la narrativa moderna ha educato a non conoscere il registro tragico. Sembra infatti che i pregi di Remi risiedano tutti in ciò che interessa agli adulti. Del resto lo stesso Remi non è mai protagonista attivo delle sue avventure, ma è sballottato da volontà altrui in un mondo che non capisce e con il quale non sa interagire.

Continua a leggere su BadTaste