"Ora so che, se dovrò di nuovo andare in cerca della felicità, non la cercherò più in là della mia stessa casa: perché, se non la trovo lì, non la troverò mai da nessun'altra parte." Può sembrare paradossale e quasi ridicolo accostare una citazione tratta da un'opera traboccante buoni sentimenti come
Il Mago di Oz a una serie intrisa del cinismo più bieco come
Le Regole del Delitto Perfetto. Eppure, la fuga di Annalise Keating (
Viola Davis) nel nido domestico abbandonato tempo addietro, tra le braccia della madre Ophelia (
Cicely Tyson), riecheggia in parte le parole del romanzo di Baum. Non che la nostra antieroina abbia trovato la felicità, siamo onesti: tuttavia, è impossibile non notare come un episodio come
Anna Mae sia il contrappeso inaspettato rispetto a una stagione costellata di intrighi, delitti e cupezza, uno spaccato di quiete - e immancabile discussione - al riparo dal clima pesante e brutale che ha caratterizzato sin da subito la serie prodotta da Shonda Rhimes.
Il ritorno alle origini pone Annalise di fronte al proprio passato, la riconcilia con le proprie colpe e, quasi magicamente, al rientro a casa, le reca un'assoluzione - comunque dolorosa - cui ormai aveva rinunciato da anni, per bocca di Bonnie (Liza Weil). I flashback non mancano, e mai quanto in questo episodio sono stati volti non all'aggiunta di eventi, bensì alla messa a fuoco delle motivazioni dei personaggi. Su tutti spicca l'esempio di Frank (Charlie Weber), la cui complicità nell'omicidio di Lila è finalmente spiegata con un movente sentimentale di efficacia straordinaria: il senso di colpa. Ed è proprio questa la tematica che gli autori sembrano aver messo al centro di Anna Mae, barattando per una volta lo stupore con la malinconia, il sangue con le lacrime.
Perché, va detto,
Le Regole del Delitto Perfetto è sì un prodotto dai grandi colpi di scena, spettacolare per molti aspetti, ma sa conservare un sublime pudore nei momenti più delicati: una sceneggiatura più ammiccante, disposta a ricattare il pubblico pur di strappargli una lacrima, avrebbe svelato allo spettatore il contenuto del biglietto scritto da Annalise per il figlio defunto, magari con l'ausilio di una melensa voiceover. E invece no: lo sfogo del dolore della protagonista è sotto i nostri occhi, ma i pensieri più profondi che le turbinano nella mente resteranno una cosa privata, nel rispetto di un lutto che, per quanto fittizio, merita comunque rispetto e discrezione.
È proprio nei momenti più quieti che emerge la grandezza di una serie come questa, il che non equivale però all' immobilità narrativa: vedere Oliver (Conrad Ricamora) cancellare di nascosto l'email di ammissione a Stanford ricevuta da Connor (Jack Falahee) non ci sconvolge, ma ci ammonisce con sottigliezza. L'influenza di Annalise si sta estendendo oltre i suoi pupilli, e la menzogna serpeggia persino nelle questioni più innocenti e scevre da connotazioni criminose. Certo, l'episodio ci offre anche la risoluzione - per la verità, abbastanza prevedibile - del caso Hapstall, con la rivelazione della colpevolezza di Caleb (Kendrick Sampson). Resta più di un punto oscuro in questo delitto, ma il focus della puntata - e, forse, dell'intera stagione - non è mai stato scoprire chi avesse fatto fuori gli ignoti signori Hapstall. Ben più rilevante è, in quest'ottica, la scena conclusiva di questo season finale, con il viscido Wallace Mahoney (Adam Arkin) riverso sul marciapiede dinnanzi al presunto figlio Wes (Alfred Enoch), freddato da un colpo che tutto fa supporre sia stato sparato da Frank, per tardiva ma sentita vendetta.
Se abbiamo imparato qualcosa da
Le Regole del Delitto Perfetto, è che la soluzione raramente coincide con la prima e più ovvia ipotesi formulata. Toccherà aspettare un anno - la serie è stata recentemente rinnovata per una terza stagione - per poter scoprire l'identità di chi ha premuto il letale grilletto; non v'è dubbio che, rispetto al finale della prima stagione,
Anna Mae abbia riservato sorprese meno sconvolgenti ma ben più dolorose e, quindi, utili alla costruzione di una più minuziosa verosimiglianza psicologica dei protagonisti. Se tale mirabile equilibrio tra azione e motivazione resterà immutato, ci sono ottime probabilità che la terza stagione non faccia rimpiangere i vertici più audaci finora raggiunti dalla serie, meglio veicolati da uno sguardo che da un proiettile.