Red Zone - 22 Miglia di fuoco, la recensione

Rinunciando a quasi tutte le caratteristiche vincenti del suo cinema sempre in guerra, Peter Berg con Red Zone fallisce

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Fin dall’inizio di Red Zone - 22 Miglia di fuoco ci sono diversi elementi inconsueti per il cinema di Peter Berg. La grande azione iniziale con la quale il team protagonista mette fuori uso una cellula russa vede Mark Wahlberg, il protagonista, lontano dall’azione. Relegato a cecchino e controllore non partecipa in prima persona al conflitto, che è stranissimo per l’eroe berghiano, sempre ultima ruota del carro ma fiero di dare il suo contributo. Infatti stavolta il personaggio di Wahlberg non è il tipico eroe che ha costruito nelle diverse collaborazioni con Peter Berg (Lone Survivor, Deepwater Horizon, Boston - Caccia all’uomo), non è cioè l’uomo comune o il soldato comune che dimostra la tenacia e lo spirito della sua città, del suo paese o della sua categoria, ma fin dall’inizio qualcuno di speciale. Solitamente in Berg questi eroi servono a dimostrare che non sono i singoli ad essere straordinari ma la categoria, invece qui James Silva è da subito presentato con un background peculiare che lo rende unico tra molti, un eroe individualista che tuttavia, alla fine della prima sequenza, uccide a sangue freddo senza aver partecipato all’azione.

Lui e la sua squadra riceveranno il delicato compito di infiltrarsi in un paese non specificato del sud est asiatico per scortare un prigioniero che si è consegnato all’ambasciata americana. Quest’uomo conosce l’ubicazione di un prezioso carico ed è disposto a rivelarla solo se gli americani lo portano fuori da quel paese che lo vuole invece morto. Non è un compito umano o umanitario, non c’è un fine positivo dietro tutto questo, agli USA serve quel carico per impedire che sia usato in attacchi terroristici e a malincuore accettano di scortarlo. Ovviamente avranno contro tutta la politica e l’esercito del paese in questione, il che crea di fatto il film. Poteva essere un B movie asciutto in stile Solo Due Ore, invece è molto più grande di così, coinvolge paesi, centri di controllo piani, inganni e contro inganni, in una confusione mal gestita.

Purtroppo qui Peter Berg non sembra lui, addirittura perde l’occasione di sfruttare un talento delle arti marziali come Iko Uwais, dirigendo le scene che lo coinvolgono con un eccesso di fastidioso montaggio che mortifica le sue doti atletiche riducendolo ad un attore come gli altri.

Quella capacità più volte riconosciuta di girare vere storie di ultimi, di americani idealizzati patrioti e di buoni sentimenti, con una coerenza e una partecipazione che nessuno ha più qui scompare. Sembra che Berg voglia creare un suo possibile franchise, con eroi di grande personalità e dal background tutto da esplorare, pronti per più missioni.

L’unica parte interessante del film è che come in tutto il cinema di guerra migliore anche qui il terreno di negoziazione tra buoni e cattivi è la morale. Nella trama ad essere conteso è un carico di cesio, materiale che serve per fabbricare armi che possono portare distruzione e morte. Nel senso del film però è la maniera in cui queste due parti conducono la guerra a costituire il vero elemento in ballo. In una guerra nuova e molto più spietata della precedente, più dura e senza regole, la morale è l’unica cosa che conta. Come nelle terre selvagge del west dove la legge arriva a fatica anche qui la dirittura dei singoli è l’unica cosa che conti. Anche per questo Berg si sentirà ad un certo punto in dovere di far precisare a qualcuno che quel che fanno i protagonisti è la forma più alta possibile di patriottismo. Che non sia semplice stabilire quale delle parti compia le azioni più discutibili dovrebbe essere la vera questione del film (risolta come spesso avviene con il più blando dei fini che giustificano i mezzi) ma che lo si debba dire a parole è il simbolo di un fallimento più grande di tutto il film.

Continua a leggere su BadTaste