Red Sparrow, la recensione

Film corretto e per questo un po' distante, Red Sparrow ha dentro di sè un cuore militante a cui tiene più che alla spy story

Critico e giornalista cinematografico


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Ex ballerina che dopo un infortunio troppo grave per continuare viene reclutata come spia da suo zio per una missione, Dominika in seguito al dovuto addestramento diventa una sparrow, una forma particolare di spia russa che lavora con il sesso per ingannare ed estrarre informazioni. Diventa cioè la spia vecchio stampo, quella che il cinema raccontava nella prima parte del novecento, la donna doppia che riesce bene in un lavoro (praticamente l’unico in cui le si vedeva a livelli alti nei film) perché sfrutta il suo stereotipo di raggiratrice di uomini. In missione in Bulgaria dovrà avvicinare un agente americano “capire quello che desidera e come darglielo” per smascherare la talpa di cui si serve per estrarre informazioni ai russi.

La guerra di spie tra americani e russi non è mai finita e questo Red Sparrow lo prende come un dato di fatto, non è nemmeno una sorpresa, ma tutta la trama fatta di scatole cinesi, continui inganni e il sospetto costante che il doppio, triplo e quadruplo gioco dei protagonisti non sia tale è in realtà un pretesto. Si tratta di un meccanismo thriller molto usuale che qui non ha niente di nuovo né di particolarmente brillante ma è solo eseguito correttamente: la vita della spia è fatta di inganni e la suspense sta tutta nel non sapere quale sia il vero piano che ha in testa, sta ingannando i suoi superiori, oppure sta ingannando l’uomo che dice di amare e per il quale vuole tradire il paese? Quante volte ha mentito e a chi? A cosa mira davvero?

A conti fatti però quello che realmente interessa a Red Sparrow è questo modello di donna ambiziosa e intelligente, inserita in un luogo di lavoro e in un sistema che la vogliono oggetto, che le insegnano ad usare il corpo per avere informazioni. Già durante l’addestramento, quando le viene chiesto di farsi possedere sessualmente davanti a tutti e le domandano cosa voglia l’uomo che sta per possederla lei risponde: “Il potere”. In quel momento non si sta parlando più di spionaggio o di militari ma dell’umanità, la richiesta di sesso non per il piacere come mezzo per esercitare e dimostrare un potere. Red Sparrow è un film che se un senso lo trova è unicamente nella messa in scena di queste dinamiche di potere: a chi non viene dato (a lei che è un donna e deve concedersi per fare il suo lavoro) e cosa bisogna fare per riconquistarlo.

La parte che anima di più il film è infatti quanto la protagonista sottilmente non stia al gioco di nessuno (americani e russi) e, pur superando l’addestramento, trovi continuamente metodi per usare il proprio corpo per non concedere potere su di lei ma anzi levarlo agli altri e riprenderselo. Mi vedete solo come un corpo ma non significa che io aderirò a questo modello.

Se il film non è perfettamente godibile (troppo lungo, poco appassionante) in questa visione Jennifer Lawrence invece è semplicemente perfetta e concede il suo corpo come non aveva mai fatto prima (fino ai nudi integrali). È un’attrice che già in Hunger Games (sempre con Francis Lawrence alla regia) aveva raccontato il giro di potere che c’è intorno al corpo femminile e all’uso della sua immagine sui media, ora anche in Red Sparrow, educata ad essere spia vecchio stampo (tutta letto e inganni come Mata Hari), impone da sé l‘idea della spia moderna (pericolosa e a livello degli uomini come Nikita o Alias) e lo fa “militando”. Dominika infatti non si limita a presentarsi diversa ma mostra al pubblico (con tutte le esagerazioni di un film) le peripezie di una donna che lavora con il suo corpo in mezzo agli uomini e alle donne fa vedere come questa condizione non vada accettata per forza.

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