Red Rocket, la recensione | Cannes 74

Texas, fanfaroni, poveri diavoli e un porno attore in cerca di riscatto, Red Rocket è una commedia che si nutre di posti e non attori

Critico e giornalista cinematografico


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Red Rocket, la recensione | Cannes74

Sean Baker parte dai luoghi.

Parte da un quartiere di Los Angeles o parte da una serie di condomini nella Florida accanto a Disneyworld, e poi da lì comincia a filmare l’umanità che ci vive dentro. Non è un procedimento diverso da quello dei documentari di Gianfranco Rosi, anche se porta a risultati diversissimi. I film di Sean Baker sono materia underground a cui lui riesce a dare una spallata indie classica per creare un ibrido nuovo. È l’unico, ad oggi, capace di flirtare con le regole del cinema mainstream, prendendone sempre le distanze come fa l’indie statunitense, ma senza perdere quella qualità elettrica e brutale del cinema realizzato ai margini dell’industria.

Red Rocket è una storia che nasce e vive intorno ad una raffineria nel Texas, case e casette di legno di una comunità che vive ai margini di quello stabilimento anche quando non ha niente a che fare con esso. Lì arriva un porno attore senza più niente, costretto a strisciare in ginocchio dalla sua ex che lo riprende mal volentieri a casa con sé e sua madre. È un bugiardo seriale, un pallone gonfiato pieno di sé che in realtà medita di fare un po’ di soldi e poi scappare per rientrare nel giro del porno di Los Angeles. Ha anche già il piede di porco giusto: una ragazzina che ha conosciuto da Dunkin Donuts e che ritiene un talento in erba del sesso.

Come già il transessuale di Tangerine anche il protagonista di questo film è potente, elettrico, pieno di idee e solca i luoghi (in bici, non con i mezzi pubblici) sempre in cerca, sempre pieno di idee. Certo Red Rocket non ha la potenza di Tangerine, non vuole averla, è un film molto più leggero che calca come non mai sulla commedia e piega tutta la messa in scena verso quell’impalpabile serenità, sempre sporcata dai posti che ricordano a tutti dove siamo. In Baker il dramma non è mai in primo piano, è negli arredi, è nelle pareti scrostate e nelle facce smunte degli amici, nei corpi troppo secchi dei familiari, non c’è bisogno di parlarne. E Red Rocket, anzi, va in tutta un’altra direzione: sa ridere di tutto, anche di una famiglia malavitosa.

È puro nuovo cinema indipendente americano, quello che ha dismesso la verbosità del mumblecore di inizio anni 2000 e gioca molto di più sui volti e il casting che sulla sceneggiatura. È la stessa tendenza dei fratelli Safdie (da cui in questo film Baker mutua l’uso degli zoom avanti e indietro a scopo umoristico, fin da quello che apre il film): avere l’ambizione non tanto di raccontare storie diverse, come si faceva prima, ma di filmare ciò che nessuno filma. Andare negli anfratti delle grandi città, nei luoghi remoti, nelle case che nessuno porta in sala e allargare il campo del filmabile del cinema americano.

Red Rocket non è il capolavoro di Sean Baker che in molti attendono, ma un film attento e preciso, in cui come sempre questo regista bravissimo sa trasmettere un’umanità contagiosa per personaggi insalvabili da tutti tranne che da lui. Totalmente al di là del bene e del male. Del resto anche qui l’impressione è che ci sia più vitalità in una casetta di questo sobborgo trumpiano che in tutte le grandi metropoli messe insieme.

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