Red Rocket, la recensione | Cannes 74
Texas, fanfaroni, poveri diavoli e un porno attore in cerca di riscatto, Red Rocket è una commedia che si nutre di posti e non attori
Sean Baker parte dai luoghi.
Red Rocket è una storia che nasce e vive intorno ad una raffineria nel Texas, case e casette di legno di una comunità che vive ai margini di quello stabilimento anche quando non ha niente a che fare con esso. Lì arriva un porno attore senza più niente, costretto a strisciare in ginocchio dalla sua ex che lo riprende mal volentieri a casa con sé e sua madre. È un bugiardo seriale, un pallone gonfiato pieno di sé che in realtà medita di fare un po’ di soldi e poi scappare per rientrare nel giro del porno di Los Angeles. Ha anche già il piede di porco giusto: una ragazzina che ha conosciuto da Dunkin Donuts e che ritiene un talento in erba del sesso.
È puro nuovo cinema indipendente americano, quello che ha dismesso la verbosità del mumblecore di inizio anni 2000 e gioca molto di più sui volti e il casting che sulla sceneggiatura. È la stessa tendenza dei fratelli Safdie (da cui in questo film Baker mutua l’uso degli zoom avanti e indietro a scopo umoristico, fin da quello che apre il film): avere l’ambizione non tanto di raccontare storie diverse, come si faceva prima, ma di filmare ciò che nessuno filma. Andare negli anfratti delle grandi città, nei luoghi remoti, nelle case che nessuno porta in sala e allargare il campo del filmabile del cinema americano.
Red Rocket non è il capolavoro di Sean Baker che in molti attendono, ma un film attento e preciso, in cui come sempre questo regista bravissimo sa trasmettere un’umanità contagiosa per personaggi insalvabili da tutti tranne che da lui. Totalmente al di là del bene e del male. Del resto anche qui l’impressione è che ci sia più vitalità in una casetta di questo sobborgo trumpiano che in tutte le grandi metropoli messe insieme.