Red Dot, la recensione
L’impressione è insomma quella che Red Dot abbia sprecato un buonissimo inizio thriller, una potenzialità di riflessione morale sulla violenza per darsi alle scelte più comode, rinunciando al potere del non detto, dell’evocazione.
Nel solco della tradizione svedese del crime più oscuro a cui ci hanno ormai abituato la letteratura e il cinema nordico, muovendosi tra quegli stessi paesaggi e quella violenza (spesso mostruosa e animalesca), Red Dot di Alain Darborg (GUARDA IL TRAILER) mette in scena un thriller a tratti convincente e appassionante ma che tuttavia perde la sua vocazione più dark per darsi al dramma più banale e forzato, perdendo così tutto ciò che aveva inizialmente seminato.
In tutta la sua prima parte il film tiene bene la componente thriller: tra il dispiegarsi di un’umanità intrinsecamente corrotta, caratterizzata da una violenza inspiegabile, e un’atmosfera di natura gelida e selvaggia che richiama a tratti I segreti di Wind River di Taylor Sheridan, Darborg mostra di sapere trattare la suspance, attraverso una regia fredda e imperturbabile come i suoi paesaggi, che non molla mai la presa sui suoi attori, sui loro gesti disperati (seppur parecchio goffi nel loro costante irrazionalità: praticamente, non prendono mai una decisione giusta per la loro sopravvivenza). Tuttavia appena nella storia irrompe la forzatura del trauma passato e del non detto, che viene didascalicamente spiegato e drammatizzato in ogni modo, ecco che la magia scompare e Red Dot diventa uno stucchevole melodramma. Praticamente, tutto un’altro film.
L’impressione è insomma quella che Red Dot abbia sprecato un buonissimo inizio thriller, una potenzialità di riflessione morale sulla violenza per darsi alle scelte più comode, rinunciando al potere del non detto, dell’evocazione. Insomma, l’impressione è che nemmeno Red Dot creda in quello che fa vedere.
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