Recensione - Metal Gear Solid V: The Phantom Pain

Big Boss non è più quello di un tempo: la recensione di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


Condividi

Big Boss è un rudere, un’immagine sfocata di quello che fu un tempo. Di lui resta un fantasma, pieno di dolore e rimpianti, che sembra trascinarsi da un campo di battaglia all’altro. Mutilato, sfigurato, ferito persino nell’orgoglio. Ha perso un braccio, un detrito conficcato nel cranio gli causa allucinazioni, molti dei suoi alleati e compagni sono morti o, peggio, sopravvivono come lui: distrutti dai sensi di colpa e arsi vivi da un desiderio di vendetta che non può essere soddisfatto.

Metal Geat Solid V: The Phantom Pain comincia proprio dove Ground Zeroes s’interrompeva e non c’è modo migliore, per descriverlo, se non paragonandolo all’aspetto del suo protagonista. Dell’eroe tormentato e “cinematografico” di Snake Eater, del soldato maledettamente romantico, costretto ad uccidere il suo mentore in una delle scene più riuscite dell’intera saga, non c’è rimasto quasi più niente. Non è solo deturpato e ovviamente invecchiato: gli occhi sono vacui, la sua voce è cambiata (argh!), ha perso la voglia di parlare, di capire, di discutere, di ribellarsi almeno verbalmente. Siamo di fronte a un nuovo Snake: un eroe di guerra sul punto di “avvelenarsi”, di tramutarsi nella nemesi di uno dei suoi figli genetici più promettenti. Ed è forse proprio per questo, unitamente alle mille vicissitudini che hanno complicato lo sviluppo del gioco, che Metal Gear Solid V risulta controverso e quasi indigesto per gli stessi irriducibili che sono persino riusciti ad apprezzare lo sconclusionato epilogo di Guns Of The Patriots. Sì, perché questo episodio è il “cattivo” della saga, quello che stravolge le carte in tavola, quello che dai trailer sembrava promettere una cosa ma che poi, all’atto pratico, verrà ricordato in futuro per ben altri meriti (e lacune).

[caption id="attachment_146749" align="aligncenter" width="508"]Metal Gear Solid V The Phantom Pain screenshot 2 Non passa giorno senza che online non sbuchino nuovi video o news relativi a qualche finale o filmato segreto sbloccabile nei modi più impensabili. Una delle tante cose che rendono grande questo videogioco.[/caption]

Come in passato, ma con tangibile e alienante apatia, Big Boss viene trascinato di missione in missione, limitandosi a fare quello che gli riesce meglio: uccidere, distruggere, estorcere informazioni, completare con successo qualsiasi incarico gli venga affidato. Combatte per una causa, a dire il vero, ma non sembra la sua. Ha degli alleati su cui fare affidamento, ma che siano cavalli, cani o esseri umani non fa alcuna differenza. Ha uno scopo, un fine, persino un nemico da abbattere e sgominare, ma si prepara ad ogni scontro con la stessa impassibilità.

Il modo migliore per capire l’evoluzione di The Phantom Pain, rispetto ai passati episodi di Metal Gear Solid, passa attraverso l’accettazione della scomparsa del Codec. Esatto: il gadget sinonimo e sineddoche della saga non c’è più. Al suo posto una serie di cassette audio (in pieno stile Anni ’80), da ascoltare quando e soprattutto se lo si ritiene necessario, utili ad ottenere nuovi dettagli sulla trama e gli obiettivi della missione in corso. Sembra una cosa di poco conto, un’inezia, ma è invece l’indizio più evidente circa il cambio di rotta, drastico e drammatico per i fan intransigenti, compiuto da Kojima in questo episodio. Metal Gear Solid V: The Phantom Pain non è un film interattivo come i predecessori: è una serie TV interattiva. I dialoghi via radio, prolissi e imprescindibili, sono stati sostituiti da sequenze facoltative e secondarie. Le complesse scene d’intermezzo, interminabili e magistralmente dirette, hanno fatto spazio a brevi spezzoni estremamente compressi e poco ingombranti. I personaggi attentamente tratteggiati, sfaccettati e maestosamente introdotti, alleati o villain che fossero, lasciano il posto a macchiette iconiche dalle personalità bidimensionali e ridondanti nelle battute e nei comportamenti.

L’avvicinamento a stilemi e canoni dei serial non risparmia nemmeno il gameplay. Non c’è più una progressione lineare, ma una serie di missioni, riaffrontabili quante volte lo si desidera, ambientate in scenari open world liberamente esplorabili. Anche da questo punto di vista ci troviamo a una svolta epocale che rimanda ai capitoli portatili del brand e, in particolar modo, a Peace Walker.

Tutto si raccorda attorno alla Mother Base: quartier generale dei Diamond Dogs, il nuovo esercito di mercenari che tenta di opporsi a Cipher. Recuperando soldati nemici e materie prime, durante le missioni, vedrete crescere la struttura a tutto vantaggio dell’equipaggiamento che potrete utilizzare e sfruttare sul campo di battaglia. Scelto il “livello”, tra secondari e necessari al proseguo della trama, selezionate armi e gadget, Big Boss si ritroverà libero di muoversi in giganteschi scenari zeppi di pericoli, nemici e, ovviamente, opportunità. Paradossale da dirsi parlando di un Metal Gear Solid, ma è proprio guardando all’aspetto ludico che si carpisce la grandezza di The Phantom Pain. Al contrario di tanti open world immensi, ma vuoti e costrittivi, la creatura di Kojima è davvero una gigantesca scatola dei giocattoli in cui il videogiocatore deve solo scegliere quali strumenti utilizzare per dare vita alla propria storia.

[caption id="attachment_146748" align="aligncenter" width="508"]Metal Gear Solid V The Phantom Pain screenshot 1 Graficamente siamo nei pressi della perfezione. Dalle animazioni, alle texture, tutto brilla di luce propria.[/caption]

Ogni scelta tattica è consentita, ogni missione prevede una moltitudine di approcci per essere portata a termine. Armarsi di fucile d’assalto ed eliminare chiunque provi ad opporsi, ha la stessa validità di una perfetta infiltrazione senza vittime. Va da sé che, trattandosi di un mondo realmente vivo e coerente, bisogna considerare alcune difficoltà extra: le basi comunicano con quelle adiacenti e basta far scattare l’allarme perché giungano rinforzi.

Inutile, tuttavia, tentare di riassumere tutte le interazioni possibili presenti in questo vibrante mondo virtuale. Il Fox Engine dà prova di grandezza, oltre che per gli indubbi meriti grafici, anche per come riesce a gestire con estrema disinvoltura l’intelligenza artificiale nemica e il motore fisico. Sembra una frase fatta, ma è la realtà: basta avere sufficiente scaltrezza strategica e un pizzico di furbizia per risolvere una qualsiasi situazione di stallo con efficacia.

"The Phantom Pain non è l’episodio “cattivo”: è solo diverso nella misura in cui Kojima, da artista qual è, ha trasformato la sua creatura in qualcosa che fosse al passo con i tempi"

Anche e soprattutto per questo dovete avvicinarvi a questo episodio con mente aperta, evitando che aspettative e preconcetti rovinino il divertimento. The Phantom Pain è poco “video” e molto “gioco”. Ciò non vuole giustificare le evidenti lacune del comparto narrativo, mai così raffazzonato soprattutto quanto a regia virtuale, ma bisogna comprenderne il diverso piglio, anche a fronte di un gameplay maestoso, profondissimo, adattabile a diversi stili e necessità.  Metal Gear è diventato una serie TV e per questo rende opzionale buona parte dei risvolti narrativi, diluisce la trama in un ampio numero di missioni e rende liberamente esplorabili le ambientazioni. The Phantom Pain non è l’episodio “cattivo”: è solo diverso nella misura in cui Kojima, da artista qual è, ha trasformato la sua creatura in qualcosa che fosse al passo con i tempi. Perché è vero: la nostra è l’epoca della serializzazione e delle serie TV. Non ci sono più i blockbuster: ci sono trilogie e film che si legano gli uni agli altri, magari dando vita a spin-off e sequel sul piccolo schermo o altri media.

[caption id="attachment_146751" align="aligncenter" width="508"]Metal Gear Solid V The Phantom Pain screenshot 3 La scelta dell’armamentario e dell’alleato che vi seguirà in missione influenzerà pesantemente le vostre possibilità strategiche e tattiche.[/caption]

Big Boss, allora, è insieme “nuovo” e sorpassato. Ha la voce del protagonista di 24 (serie TV che, insieme a Lost e a pochi altri, ha ridefinito il modo di concepire la produzione televisiva) e allo stesso tempo sembra un vecchio apatico che non capisce più i tempi che corrono, e che, al massimo, mette le sue abilità al servizio di chi ne sa più di lui, di chi sembra in grado di comprendere e adattarsi alla contemporaneità.

E poco importa se alla fine ci scappa qualche incongruenza, se manca qualche nemico di spessore, se il finale (quale finale poi?) non è esplicativo come ci si sarebbe aspettati: Metal Gear è sempre stato metaforico e metareferenziale, come lo definì il compianto Bruno Fraschini, e per questo, prima di preoccuparsi di restare fedele a sé stesso, deve offrire una visione socio-antropologica del nostro mondo, deve restare al passo con i tempi, deve parlare la stessa lingua dei suoi spettatori. Ecco perché le serie TV, ecco perché missioni contenute e brevi, specchio di in una società sempre più frenetica, di in una Konami, mettiamo il dito nella piaga, sempre più proiettata verso il mercato mobile.

Metal Gear Solid è cambiato. È diventato un videogioco bellissimo, divertentissimo, profondissimo. Muovere Snake in questi immensi parchi gioco, decidendo di volta in volta come raggiungere il proprio obiettivo, è una gioia difficilmente descrivibile. Avevamo avuto qualche assaggio sia in Ground Zeroes, ovviamente, che in Guns Of The Patriots di quello che sarebbe potuto essere un episodio della saga con ambizioni open world, ma Kojima e soci si sono superati regalandoci un’esperienza indimenticabile e affascinante. Purtroppo, sbirciando l’altro lato della medaglia, nonostante intenzione e motivazioni della direzione artistica intrapresa dagli sviluppatori, è impossibile non rammaricarsi per un comparto narrativo fin troppo sacrificato e straniante. Perché l’influenza dei serial ci può stare, ma è inspiegabile l’assenza di un boss degno di questo nome, di un protagonista passivo all’eccesso, di una regia virtuale inaspettatamente poco attenta ai dettagli.

Un grande videogioco, ma non un videogioco perfetto. Se questo sarà davvero l’ultimo capitolo della saga, non avremo di che rammaricarci: un epilogo migliore era forse possibile, ma mentre vi divertirete come pazzi a eliminare nemici e a far crescere la Mother Base, tutto il resto passerà in secondo piano.

Continua a leggere su BadTaste