Recensione: Apes Revolution - il Pianeta delle Scimmie

Il secondo capitolo del riavvio della saga del Pianeta delle Scimmie è un perfetto cocktail di splendore visivo ed emozione...

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Dovendo trovare una tagline di Apes Revolution: il Pianeta delle Scimmie, rapportandolo alla prestigiosa saga di cui fa parte, si potrebbe dire semplicemente: "Di bene in meglio."

Infatti, dopo il primo, riuscitissimo episodio di reboot L'Alba del Pianeta delle Scimmie, è un piacere trovarsi di fronte a un sequel che non solo conferma ciò che di buono era stato mostrato nel film del 2011, ma riesce a compiere ulteriori passi avanti sia in termini di spettacolarità che di coinvolgimento emotivo.

L'elemento determinante per questa evoluzione è, senza dubbio, la scelta di rendere lo scimpanzé Cesare il vero e proprio protagonista; decisione inedita ma indubbiamente azzeccata, complice anche la brillante interpretazione di Andy Serkis. Non che avesse nulla da dimostrare, dopo le performance memorabili offerte sia come Gollum che come King Kong; ma Cesare è un protagonista assoluto, laddove le altre interpretazioni di Serkis l'avevano comunque relegato a ruoli da comprimario. E l'attore britannico regge splendidiamente l'intero film, riuscendo con la propria espressività ad annullare qualunque distanza sentimentale tra lo spettatore e il primate. Come si è parlato, a suo tempo, di una candidatura all'Oscar per l'interpretazione di Gollum, così oggi viene spontaneo affermare che una nomination per il ruolo di Cesare sarebbe più che meritata.

Fanno corona attorno a Serkis altri ottimi interpreti, a partire dal coprotagonista Jason Clarke (già visto in Zero Dark Thirty e Il Grande Gatsby) per arrivare all'ambiguo Gary Oldman, passando per la bella Keri Russell e il giovanissimo Kodi Smit-McPhee. Lode inoltre al cast "scimmiesco": Karin Konoval nel ruolo del gorilla-letterato Maurice, Judy Greer nel ruolo di Cornelia, moglie di Cesare, e il giovane Nick Thurston che interpreta il figlio di Cesare e Cornelia, River detto Occhi Blu. Se già in L'Alba del Pianeta delle Scimmie l'eccellente lavoro della Weta Digital aveva raggiunto vette di realismo inedito, in questo seguito il livello di verosimiglianza delle scimmie è perfettamente equiparabile a quello degli esseri umani, a totale vantaggio di una sospensione dell'incredulità che non conosce interruzioni fino all'epilogo del film.

Complementare alla bravura dell'intero cast e allo straordinario lavoro di CGI svolto dalla Weta, va elogiata anche l'agile e sensibile regia di Matt Reeves, che prende il testimone da Rupert Wyatt non facendo rimpiangere nulla del precedente capitolo, ma anzi arricchendo la grammatica cinematografica della saga con un coraggio encomiabile, perfettamente esemplificato sin dalle prime, intense scene, quasi totalmente prive di dialogo - o quantomeno, di dialogo inteso in maniera tradizionale. Il tutto immerso in scenari post-apocalittici di rara bellezza e coerenza visiva, che alternano al meglio le architetture ancestrali del villaggio delle scimmie a quelle rugginose e decadenti di una San Francisco ormai divorata da una famelica e rigogliosa vegetazione.

Sarebbe tuttavia poco obiettivo asserire che Apes Revolution sia un film privo di difetti: salta infatti all'occhio qualche sbavatura di sceneggiatura, specialmente nella gestione del personaggio di Gary Oldman, forse l'unico non a fuoco nello script - difetto che viene fortunatamente stemperato dall'intensa, impeccabile performance dell'attore britannico. Malgrado ciò, la solidità della trama non viene scalfita più di tanto, garantendo all'intero prodotto un ritmo serrato e una climax narrativa del tutto efficace.

Una volta tanto, quindi, ci troviamo di fronte a un reboot con una valida e indiscutibile ragion d'essere, che arricchisce la saga originaria con nuovi e freschi messaggi, ben accostabili alle situazioni politiche contingenti, non trincerandosi dietro un pacifismo tanto comodo quanto irrealistico, ma assumendosi il rischio di mostrare una prospettiva cupa e incerta di un futuro figlio della discriminazione e dell'odio tra i popoli, in cui la mediazione non è più una subitanea tappa, ma un lungo, impervio sentiero verso l'ignoto.

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