Recensione - Alien: Isolation - Paura del buio
Abbiamo recensito Alien: Isolation e ci siamo ricordati perché non è mai saggio fidarsi della Weyland Yutani
A trentacinque anni dall’uscita nelle sale del primo, storico, capitolo della quadrilogia di Ridley Scott e a un anno e mezzo dal disastroso Aliens: Colonial Marines, SEGA ci riprova, portando sui nostri schermi Alien: Isolation, il primo gioco dedicato agli xenomorfi capace davvero di accompagnarci fra gli incubi uterini immaginati dal regista e da H. R. Giger.
Sviluppato da Creative Assembly, Alien: Isolation si ambienta a metà strada fra gli eventi di Alien e l’assedio narrato in Aliens, quindici anni dopo i fatti della Nostromo. Nei panni della figlia di Ellen Ripley ci imbarcheremo insieme a un team della Weyland Yutani dopo aver scoperto che la scatola nera della nave abbandonata da nostra madre si trova in custodia presso la Sevastopol, una remota stazione spaziale in orbita attorno alla stella KG - 348. Sembrerebbe una missione di routine, quasi semplice, ma, ovviamente, le cose non andranno
"i ragazzi di Creative Assembly hanno scavato per tornare alla origini del franchise di Alien, mettendo al centro del gioco un elemento spesso dimenticato, la paura"Alien: Isolation non è uno sparatutto e nemmeno un’avventura action sullo stile, mettiamo, di un Metroid Prime: i ragazzi di Creative Assembly hanno scavato per tornare alla origini del franchise di Alien, mettendo al centro del gioco un elemento spesso dimenticato, la paura. Alien: Isolation fa paura, per davvero, mette ansia, porta il cuore a battere fortissimo e non concede quasi nulla. Amanda Ripley è sola e non ha i mezzi per confrontarsi con un nemico potente come lo xenomorfo, non è una guerriera e nemmeno un’eroina come sua madre: si tratta solo di una ragazza finita per caso, e per sfortuna, dentro a un incubo terrificante. Allo stesso modo il giocatore si trova a fare i conti con un gioco che non fa nulla per metterlo a suo agio: le - poche - armi che avremo a disposizione sono poco più che giocattoli e, come da tradizione nella serie di Alien, la tecnologia si rivelerà più un impiccio che un aiuto. Fra porte che non si aprono, esplosioni improvvise, rumori e computer che non funzionano, Alien: Isolation riesce a costruire una tensione continua, percepibile, che trova i suoi momenti di catarsi suprema negli incontri con la creatura, con il mostro. Creative Assembly ha dotato lo xenomorfo di una intelligenza artificiale fin troppo evoluta e, soprattutto, quasi per nulla scriptata: sentire il suo “respiro”, vedere il suo profilo nero avvicinarsi sono esperienze di terrore puro, mentre le corse verso i nascondigli diventano gli unici momenti in cui ci sentiamo davvero vivi.
Tutto perfetto, dunque? Si e no. Alien: Isolation funziona alla perfezione finché il giocatore accetta di seguire pedissequamente la strada indicata dal team di sviluppo, procedendo come se esistesse una sorta di copione virtuale e noi lo stessimo interpretando. Ogni deviazione, ogni tentativo di uscire dal percorso principale ha come unico risultato il frantumarsi della sospensione d’incredulità, un po’ come se, al cinema, la macchina da presa allargasse l’inquadratura fino a mostrarci la troupe e i cavi degli effetti speciali, svelando il polistirolo di cui sono fatte le pareti della Sevastopol. Per ovviare almeno in parte a questo rischio Creative Assembly ha scelto una soluzione che scontenterà alcuni: ha deciso di rendere Alien: Isolation difficile, molto difficile. I punti di salvataggio sono lontani fra loro e anche il più piccolo errore ci trasformerà in carne da macello, sia per l’alieno che per i gli altri esseri umani. A tratti questo approccio può diventare frustrante ma, dopotutto, Ellen Ripley dovrebbe averci insegnato che sopravvivere nello spazio profondo non è roba per deboli di cuore.