Reacher (prima stagione): la recensione
Reacher, seconda versione live action dei romanzi di Lee Child, è una serie classica ai limiti del banale, sorretta da un’ottima scrittura e da un cast perfetto
Non è solo questione di altezza o di muscoli. Il Jack Reacher letterario è un mix tra Terminator e lo Sherlock Holmes versione BBC, la power fantasy definitiva: bello, intelligente, incorruttibile, severo soldato ma anche tenero amante. E lo stesso vale per il Jack Reacher di Reacher, una creatura perfetta, un monolite impossibile da scalfire, un Rambo con meno traumi e il sorriso sarcastico di quello che sa di essere sempre tre mosse in anticipo sul resto del mondo. È il cuore della serie, il monumento intorno al quale ruota tutto quanto, e il fatto che sia così azzeccato basta da solo a elevare la creatura di Nick Santora ben sopra la sufficienza.
Al resto ci pensano due cose. Innanzitutto il già citato resto del cast: come Ritchson è perfetto, così lo sono Malcolm Goodwin (Finley) e soprattutto Willa Fitzgerald (Roscoe), che tira fuori tutta la ragazza del sud che c’è in lei e dà vita a un personaggio femminile solo in parte appesantito da qualche inevitabile (ci torniamo) momento damsel in distress. La chimica tra i tre, che si improvvisano improbabile squadra di detective per risolvere un intricatissimo caso di contraffazione, è sublime, sia quando si ride e si scherza (Reacher ha più di un sorprendente momento comico), sia quando le cose si fanno serie.
E poi c’è la storia, ovviamente, presa di peso dal primo romanzo di Lee Child, lievemente aggiornata all’epoca di Internet e degli smartphone, ma per il resto quasi intatta, nella struttura generale e anche nello svolgimento più granulare. In altre parole, se avete letto il libro sapete già tutto o quasi tutto, e tutti i pregi e i difetti della storia di questa prima stagione si possono far risalire alla fonte originale. Da un lato Child ha inventato un intrigo internazionale che è divertente da spacchettare a colpi di rivelazioni e colpi di scena, e contiene anche parecchi spunti interessanti che vanno al di là della finzione. Dall’altro la prima storia di Jack Reacher è quanto di più classico, e a tratti banale, che sia mai stato partorito nel genere.
C’è una piccola città in mezzo al nulla, Margrave, nella quale, come da tradizione western, arriva il cavaliere solitario senza passato e porta con sé il caos. C’è un ricco imprenditore locale e benefattore della città, le cui attività nascondono ovviamente un lato oscuro. Ci sono poliziotti corrotti, complici innocenti e un sindaco viscido e prepotente. C’è anche molta violenza, mostrata senza remore quasi a sfiorare la pornografia, con momenti di crudeltà quasi fincheriana. Jack Reacher tira un sacco di schiaffi, molla un sacco di calci e spacca o fa esplodere tutto quello che gli si para davanti per fermarlo. È tutto deliziosamente prevedibile, e girato con linearità, quasi al risparmio: la messa in scena è quella di una serie thriller di vent’anni fa, senza particolari guizzi ma con coreografie pulite ed eleganti nelle scene d’azione, e una gran quantità di campi e controcampi banali ma tutto sommato funzionali.
Se cercate una serie innovativa, originale o sperimentale girate molto alla larga da Reacher, che è una delle opere più classiche e classicamente televisive che si siano viste nel genere di recente (ogni episodio finisce con un cliffhanger che sembra pensato per una programmazione settimanale più che per il binge compulsivo). Se invece volete la miglior trasposizione possibile di un romanzo molto divertente, messa in scena con rigore e senza troppi arzigogoli, siete arrivati nel posto giusto. Peccato solo per quel finale, che pur citando apertamente Senza tregua di John Woo non riesce a essere il climax esplosivo che forse vorrebbe. Ma la promessa finale è chiaramente quella di nuove stagioni e nuove occasioni per vedere Jack Reacher all’opera, e la strada è quella giusta.