Re Granchio, la recensione | TFF39

La recensione di Re Granghio, film italiano che guarda dietro di sè, presentato alla Quinzaine di Cannes e ora al Torino Film Fest

Critico e giornalista cinematografico


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Re Granchio, la recensione | TFF39

Non capita di frequente di trovare qualcuno così onestamente ammirato dai paesaggi che riprende come Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Non è un’esagerazione dire che le vicende di Re Granchio sono un grande pretesto per poter filmare quei posti tanto poco è l’interesse per le peripezie del protagonista, al limite del pretestuoso con certi eccessi di fervore politico un po’ naive e in fondo quasi teneri; e tanto invece c’è una capacità di notare anche i dettagli più piccoli e nascosti dei luoghi calpestati, delle montagne, dei prati su cui ci si sdraia. È una visione naturalistica da romanticismo mitteleuropeo a cui siamo poco abituati e che tuttavia si accoppia non benissimo con l’intento del film.

Quella di Re Granchio è una storia raccontata in forma orale da alcuni pastori, volti e corpi autentici, parlate strascicate, accenti reali, volti distrutti dal sole, mani grosse. Raccontano di un protagonista che vive con loro ma non è come loro, lo vediamo subito che ha un’altra faccia e un altro corpo, non viene dal mondo contadino. È Gabriele Silli, artista alla prima esperienza per il cinema. La differenza tra lui e il resto del cast è fortissima, sembra quasi la differenza tra classi. Lui vive con loro ma non è come loro, è figlio di medico, parla bene e ha espressioni più soffuse, ha intenzioni e volontà ribelle. La povertà l’ha scelta ed è infervorato. C’è una storia d’amore popolana, la società dei ricchi che si mette di mezzo e poi l’avidità, la ricerca dell’oro e un finalone in cui si spara addirittura, in un delirio d’onnipotenza.

Il film è tutto dislocato in un passato ricostruito in luoghi presenti ma diroccati, i posti sono giusti, l’epoca è sbagliata, come in certi lavori pasoliniani, dove l’anacronismo è voluto. Ma c’è anche un certo modo di sentire la tradizione contadina che viene da Olmi e uno sguardo e una fotografia che paiono uscite dai migliori fratelli Taviani (a essere onesti, dalla maniera in cui Alice Rohrwacher ha rimesso in circolo quelle idee).

Insomma Re Granchio sa bene a che modelli guardare e si vede che nutre una sincera passione per quel tipo di cinema. È capace di generare immagini eccezionali dal potere accattivante e soprattutto dalla reale capacità di far slittare l’ordinarietà del paesaggio naturalistico in una sua versione poetica e per questo romantica.

È insomma l’epopea popolare e contadina stilizzata al massimo per nasconderne il lato brutale e duro (i cattivi sono tutti da una parte) ed esaltarne la vicinanza ad una vita semplice e, sembra di capire, per questo onesta e vera. È pura retromania da cinema italiano (a partire dai titoli di testa!), non diversa da quella che colpisce il cinema americano quando rimette in scena oggi l’estetica dei film Amblin, solo applicata ad un altro tipo di sensibilità. Retromania nostalgica per un mondo, delle idee e una visione della società.

Quando alla fine sembra voler prendere tutto questo e chiudere con un finale da Werner Herzog, quando sembra cioè voler fare un discorso più brutale sugli istinti umani messi a confronto con una natura che si disinteressa, così bella e pura come il lago del finale che inebria, quando guarda l’oro sul fondo con i granchi, quando inscena la sparatoria in un oceano di sassi, lì Re Granchio sembra emanciparsi e trovare quasi una visione più sensata, sembra capace per un attimo di dialogare con il presente invece di rimpiangere il passato, smette di idolatrare e comincia a mettere in discussione. Lì diventa un buon film perché quel che di ottimo già aveva fatto vedere lo riesce a valorizzare. Peccato che dopo poco finisce.

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