Raya e l'ultimo drago, la recensione
Un film da studio, classico e senza nessun sussulto. Eppure Raya e l'ultimo drago il suo lavoro lo fa con maestria e dimostrando anche una sana voglia di far film
Come mai i lungometraggi d’animazione quando devono partorire dei prologhi, da Kung Fu Panda in poi, lo fanno con sequenze 2D inventive, piene di idee, dai riferimenti colti, dagli abbinamenti cromatici eccezionali e una valanga di soluzioni d’animazione raffinate, e poi per il resto del film invece ricorrono al consueto stile-Pixar, ovvero quel modo di disegnare umani e animali con un buon tasso di fotorealismo solo poco contaminato dalle smussature cartoon? Anche il prologo di Raya e l’ultimo drago come molti altri dimostra che esiste negli stessi autori che la Disney ha assunto un desiderio di creazione più libera, ma di nuovo è relegata a pochi minuti iniziali mentre per il corpo del film si rientra nei canoni dell'ordinarietà.
Non è un film che tira i remi in barca ma ha voglia di disegnare, solo che come per tutti i titoli degli studi più grandi intende l’animazione come un universo standardizzato sul solito tasso di stilizzazione (basso) invece che come un terreno libero. Non più il regno della creazione di uno stile con ogni film ma uno in cui l’immaginario stilistico è stato fissato e non si può cambiare.
È uno storytelling per accumulo (di abilità, di relazioni e quindi di potenza che qui coincide con la consapevolezza).
Sono queste tutte ispirazioni, assieme alle location del sudest asiatico e alla palette di colori composta da toni modaioli, che il film armonizza bene e sa contrappuntare di divertimento. Il suo obiettivo non è molto diverso dal solito, ma dimostra una certa maestria nell'ottemperare a tutti i punti della lista che un film simile deve rispettare, nel percorrere tutte le svolte note e risapute e quindi in una parola nel ri-raccontare la solita storia in una foggia rinnovata.
Ed è merito (per una volta) anche dell'ambientazione. Se moltissima animazione ha provato a essere attraente per l’Asia rappresentandone mondi e personaggi con grande enfasi sul fantastico (Big Hero 6, Kung Fu Panda, Il piccolo Yeti…), Raya e l’ultimo drago sembra il primo film americano che oltre a cercare quell’approvazione accarezzando i valori asiatici (non l’individualismo ma il collettivismo), le strutture (protagonista umano con aiutante non umano) e le sue tradizioni, specie culinarie, riesce anche a essere un buon film. Complice un comparto musicale di livello (James Newton Howard in gran forma) e complice la presenza di Awkwafina, sempre più l’attrice del momento, qui non solo doppiatrice del drago ma proprio portatrice di una personalità che si impone come la quella cruciale del film (la protagonista al solito non ne ha una che esuli dal senso del dovere), Raya e l’ultimo drago stupisce, crea e nei limiti citati all’inizio inventa visivamente.
Un po' confuso e poco teso nel finale, cioè proprio là dove dovrebbe essere semplice e diretto, il film si perde a un passo dalla meta, ma questo non leva il buon lavoro di ritmo, dialoghi e recitazione che quest’impresa dalle scarse ambizioni, molto ordinaria e convenzionale riesce (se non altro) a fare. Se pure fosse riuscito ad avere un’altra lettura, sotto quella più diretta di pace armonia e tolleranza tra popoli, sarebbe stato addirittura credibile.
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