Ray

I film biografici sono sempre un terreno spinoso. Da una parte, la necessità di creare un personaggio che appassioni il pubblico. Dall’altra, il dovere di non scadere nell’agiografia. Tutto sommato, Taylor Hackford se la cava bene.

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I primissimi minuti del film sono emblematici. Dopo un inizio folgorante, con suggestive immagini di Charles che suona, si passa bruscamente ai ricordi della sua infanzia.
Questi cambiamenti di epoca e di luogo avvengono spesso nella prima parte del film e sono uno dei motivi per cui non ero partito favorevolmente nella visione. Il fatto è che, in soli trenta-quaranta minuti, viene messa troppa carne al fuoco. Gli incubi di Ray e il trauma che li ha provocati (ma è una buona scelta quello di rivelarlo abbastanza presto, anche perché francamente non era difficile da capire); gli esordi del musicista e gli incontri che segneranno la sua carriera (ma anche quelli con persone che non rivedrà più, cosa che aggiunge un po’ di confusione al tutto); le prime esperienze con le droghe. Insomma, gli argomenti non mancano di certo, ma si ha l’impressione che tutto vada un po’ troppo di fretta (non è difficile immaginare qualche taglio al montaggio, vista anche la durata finale della pellicola di circa due ore e mezzo).

Poi, ad un certo punto, qualcosa scatta. Sarà forse l’inizio delle sfolgoranti incisioni di Ray Charles per la Atlantic, ma la pellicola prende tutto un altro ritmo ed inizia ad appassionare. E’ molto efficace, per esempio, l’utilizzo di alcune canzoni per evidenziare il rapporto del protagonista con le sue coriste (e quasi sempre compagne di letto), come capita ottimamente con Hit the Road Jack e la sua amante Margie Hendricks, una scena che mette i brividi e appassiona allo stesso tempo.
E molte idee visive (in particolare quelle utilizzate per evidenziare i passaggi temporali e le tournée dell’artista) sono eleganti e raffinate, merito anche dell’ottima fotografia di Pawel Edelman (Il pianista, ma anche film di Wajda e Jerzy Stuhr), che ottiene grandi risultati soprattutto nei ricordi d’infanzia di Ray.

Meno soddisfacenti altri aspetti. Infatti si ha l’impressione che la pellicola non voglia mostrare conflitti eccessivi, tanto da far vedere come tutte le svolte musicali del protagonista (cambi di etichetta, di manager, di stile) siano sempre coronate da successo e non provochino grossi problemi. D’altra parte, è vero che invece la vita privata (e la dipendenza dall’eroina) non vanno molto bene, ma anche qui sembra che ci sia stato qualche ammorbidimento. Forse Hackford ha voluto evitare le scene madri (che di solito infestano i biopic), ma si ha anche il sospetto che il vero Ray Charles (che ha collaborato al progetto fino alla sua morte) abbia chiesto di edulcorare qualche passaggio.
Inoltre, alcune scene sono abbastanza telefonate e, anche se non si scade mai nel pacchiano, lo si sfiora spesso.

Come capita per le interpretazioni migliori, sarà impossibile d’ora in poi immaginare qualcun altro al posto di Jamie Foxx, così come è impossibile per me capire chi potrebbe batterlo agli Oscar.
La sua interpretazione è magistrale, non solo per come riesce ad imitare perfettamente i movimenti di Charles, ma anche per il suo pesantissimo accento sudista (che ovviamente si perderà nell’edizione italiana). Inoltre, Foxx è bravissimo nell’evitare il cliché dell’artista maledetto, tratteggiando un protagonista non banale, senza esagerare sui suoi difetti ma evitando di proporlo come un santo.

D’altronde, Hackford punta i riflettori su di lui, evitando quasi sempre di trattare temi che potevano risultare interessanti ma anche banali, come le accuse di blasfemia o il razzismo (che comunque viene trattato in una scena molto emozionante).
L’idea della pellicola è che tutto (rapporti con le donne, problemi di droga e ovviamente ispirazione musicale) derivi dall’infanzia. Non è difficile quindi capire come mai ci sia posto per un finale psicanalitico abbastanza banale, anche se girato in maniera sobria.

Peccato che a questa scena obbligata, ne segua (quando tutto sembra finito), un’altra assolutamente inutile, se non per glorificare maggiormente l’importanza di Ray Charles non solo nella musica, ma nell’intera società americana.
Insomma, facendo i conti, una pellicola discreta, con ottimi momenti ma anche cose mediocri. Superiore comunque a pellicole come A Beautiful Mind e Chicago. Ci siamo capiti...

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