Rapito, la recensione

Pensato come un film all'americana, Rapito mantiene in toto la capacità eccezionale di Bellocchio di generare immagini potenti

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Rapito, il film di Marco Bellocchio in concorso a Cannes e in sala dal 25 maggio

È veramente curiosa la maniera in cui lentamente, a partire dall’inizio degli anni 2000, Marco Bellocchio abbia messo in moto un processo di commercializzazione del suo cinema, ed è ammirabile come questo sia avvenuto tenendo stretta con i denti la forza di tutta la prima parte del suo percorso, cioè non solo la sua visione di mondo, ma anche quella capacità non comune che ha di tradurre pensieri, concetti e riflessioni in singole immagini potentissime. Esterno notte (addirittura una fiction per la RAI!), sembrava la punta massima di questa commercializzazione, la versione per tutti di un film (Buongiorno notte) che fu uno di quelli che iniziò il mutamento. Rapito invece è un passo ancora più in là.

Ci sono in questa storia reale di un bambino di famiglia ebrea rapito dalla chiesa cattolica negli anni dello stato pontificio perché erano venuti a sapere che qualcuno l’avesse battezzato, i meccanismi tipici del cinema mainstream come un profondo senso di ingiustizia e di indignazione verso figure recitate con distaccata malvagità (l’inquisitore di Gifuni o perfido sadismo del Papa di Paolo Pierobon), l’appassionato resoconto della battaglia della famiglia con trovate, sorprese, tentativi di liberazione che arrivano all’improvviso e un gran ritmo. Ma c’è poi anche uno sguardo estremamente umano verso tutti i personaggi che non appartengono alla chiesa e moltissime soluzioni che vengono dal cinema americano (dal leccare lo sporco per dimostrare sottomissione come in Arancia meccanica ad un montaggio parallelo tra esito del processo e cresima, cioè sacro e profano, violento e religioso, che ricorda quello del finale di Il padrino).

Rapito da questo punto di vista potrebbe essere un buon film di ricostruzione storica di Santiago Mitre o uno di Pablo Trapero, non fosse che Bellocchio costantemente fonde a questo atteggiamento commerciale la schiena dritta del cinema d’autore, e lo fa con un’efficacia che è davvero impressionante. Gli spazi ritagliati sono pochi e tutti così centrati da pesare tantissimo. A dominare l’immagine più potente quella di Edgardo, prigioniero nel seminario che sogna di levare i chiodi a un crocefisso, suggerendo che anche Gesù come lui sia prigioniero lì dentro in quel ruolo e in quell’indirizzo e che, più in grande, la storia del cristianesimo e l’impostazione della religione che quel crocefisso simboleggia, sia proprio votata alla costrizione.

Come nel miglior cinema americano dentro Rapito si trovano quindi sia una storia avvincente sia una visione di cinema e di cosa facciano i racconti alla nostra vita intellettuale, che è tutta nei dettagli, negli scarti dall’usuale e nelle scene ritagliate fuori dallo svolgimento ordinario. Come il modo subdolo in cui, lavorando sulla recitazione di Paolo Pierobon, il film riesce a suggerire che la ragione per la quale il Papa ha Edgardo tra i suoi preferiti e lo tratta diversamente è perché lo considera una sua vittoria morale e come ricavi un evidente piacere da questo. È il piacere del potere e delle grandi figure che spesso nei film di Bellocchio assieme ai grandi processi storici schiacciano i singoli (avviene ad esempio anche in Vincere), ma ancora più in grande è qualcosa che il cinema commerciale italiano ha sempre timore di dire, cioè esprimere una visione della storia italiana come una catena di vessazioni contro le persone comuni, colpevoli di essere finite loro malgrado negli ingranaggi non tanto di uomini malvagi, ma proprio delle istituzioni che paiono ciò che di più disumano possa esistere.

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