Rapiniamo il Duce, la recensione

Un progetto promettente, concepito benissimo narrativamente e visivamente, che crolla proprio là dove i suoi autori sono più forti

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Rapiniamo il Duce, il film in uscita su Netflix il 26 ottobre presentato alla Festa del Cinema di Roma

Quante domande! C’è da rompersi la testa guardando Rapiniamo il Duce, progetto pronto per Netflix concepito perfettamente ed eseguito al di sotto del livello che meritava. In troppi momenti si fatica a capire la ragione di certe scelte e la ratio che ha guidato la produzione intorno ad una storia e una sinossi a prova di bomba. Gnesini, Strada e De Maria da qualche anno lavorano intorno al crimine con grande originalità e abilità, hanno scritto Italian Gangster (documentario di ricostruzione molto molto buono) e Lo spietato, altro film criminale per Netflix con Scamarcio di sorprendente riuscita. Tutti diretti da De Maria stesso. OraRapiniamo il Duce sembrava il perfetto passo avanti per loro, una vera promozione, e invece, proprio nel trasformare tutto quel che hanno dimostrato di saper gestire in fumettoso, crollano.

La storia è quella di una banda di reietti che lavorano come ladri negli ultimi giorni del regime (quelli di Salò) e che adocchiano il tesoro del Duce, l’oro inviato dagli italiani per la causa bellica. Sono un ladro di professione, un pilota di auto, un bombarolo anarchico e via dicendo. Non sono i soliti partigiani (che comunque non mancheranno) ma degli outsider con un progetto esagerato, in una Milano anni ‘40 molto carica e permeata da fascisti dipinti come solitamente sì fa con i nazisti nei film americani: tinte forti, sadismo spinto e iperviolenza. Tutto giustissimo. Poi però il film inizia e vediamo dialoghi iper esplicativi, vediamo (almeno all’inizio) inserti animati (male) superflui e una fatica indescrivibile a parole a fare azione. L’impressione è che Rapiniamo il Duce sia stato realizzato da qualcuno molto bravo ma costretto a misurarsi su toni che non ama e sottogeneri che non conosce.

Così da una parte c’è una grande epica di questa Milano anni ‘40 tra vero e falso, ottima (là dove questo tipo di film di solito è ambientato a Roma), ci sono ambienti, soluzioni visive e un uso espressivo delle luci che funzionano benissimo; dall’altra un cast di attori di solito perfetti non va mai a regime, recitano ampiamente sotto i loro standard (specialmente Castellitto che sulla carta è la scelta perfetta), a disagio con le loro battute e insicuri anche quando sarebbero tratteggiati bene. Ad esempio c’è Matilda De Angelis femme fatale manipolata invece che manipolatrice, come di solito avviene, e Isabella Ferrari diva del cinema decaduta che sfoggia una risata maligna stranamente appropriata, che sembrano impossibili da sbagliare eppure nella serie di incastri mancati che non fanno girare questo film si perdono. Solo Maccio Capatonda e Filippo Timi (grandissima scelta) viaggiano in autonomia anche per via dei personaggi che hanno.

Tutto si chiuderà con il fallimento peggiore, un inseguimento finale tutto giusto, ben concepito e scritto benissimo, con una narrazione interna all’azione e due dinamiche diverse in contemporanea (una che vede impegnato Castellitto e l’altra che impegna invece Maccio Capatonda), che tuttavia è realizzato in maniera così confusa che si fa davvero fatica a comprendere la dinamica e alla fine la si deve dedurre dalla conclusione. Un finale che strizza l’occhio a possibili sequel sarebbe stato davvero davvero benvenuto (e anche l’idea per proseguire sembra, di nuovo, promettente) se tutti questi problemi non facessero venire più timore che desiderio.

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