Rapina a Stoccolma, la recensione
La storia della rapina a Stoccolma, da cui il nome dell'omonima sindrome, è ridotta a una dinamica molto elementare e forzatamente romanzata
Tutti parlano inglese con accento svedese (tranne Strong e Hawke ovviamente) in un film che fa della semplicità d’animo la sua cifra. La questione della sindrome di Stoccolma qui è un affare molto elementare: erano tutte delle brave persone in un mondo di bastardi, dunque si sono voluti bene. Un bravo rapinatore dal cuore d’oro e dall’animo sensibile (cosa per la quale viene deriso dai poliziotti che stanno trattando con lui per il rilascio degli ostaggi e che lo fa infuriare come solo un bambino si può arrabbiare quando lo chiamano “femminuccia”), che ascolta Bob Dylan ed è pieno di dolcezze, rinchiude in un caveau due impiegate e un impiegato della banca che stanno rapinando, con loro e con il compare che ha chiesto di scarcerare cercano di fregare la polizia, brutale e spietata, che li assedia. Chiamano i cari a casa che tanto cari non sembrano, ridono, scherzano e dividono il mangiare. Praticamente vivono come ad un campo estivo e quando tutto finisce ci scappa la lacrimuccia.
Robert Budreau scrive e dirige un film così elementare e dai rapporti di forza così schematici da riuscire nell’impresa di essere al tempo stesso l’unica vera storia della sindrome di Stoccolma e la peggior storia sulla sindrome di Stoccolma. Impossibile citare gli altri precedenti cinematografici in fatto di rapine e rapinatori perché di quelli, questo film non vuole avere nulla. Questo è un film adolescenziale per come estremizza i conflitti così che siano facili da leggere per lo spettatore e così che nessuno possa nutrire dei dubbi su quali siano i personaggi per i quali parteggiare. Rapinatori e sequestrati sono della stessa pasta, uomini e donne sole in un mondo che non li capisce. Normale che sviluppino un rapporto. La tesi di Rapina a Stoccolma è che la sindrome di Stoccolma nasce quando i rapinatori sono delle brave persone e aiutano i sequestrati a ricevere un po’ di comprensione.