Rambo: Last Blood, la recensione
Immaginato bene ma non scritto allo stesso livello, di Rambo: Last Blood sembra sia stato concepito prima il finale e poi a ritroso come arrivarci
Rambo: Last Blood, la recensione del film di Adrian Grunberg con Sylvester Stallone
C’è un’idea di cinema grandissima, una sola, dentro Rambo: Last Blood, ed è quella che trasforma la residenza di John Rambo, ormai in pensione da qualsiasi cosa (ma non dal cinema), in un’allegoria della sua mente.
La trama parte quando la nipote della donna di servizio, praticamente adottata da John Rambo come sua figlia, scopre con l'aiuto di un’amica che vive in Messico dove abita il padre che mollò lei e sua madre (in seguito deceduta). Riceve quindi un indirizzo e decide di andare a trovarlo. Tutti glielo sconsigliano perché troppo pericoloso, ma per mettere la trama del film in moto lei ci va ugualmente di nascosto da tutti. Le cose andranno male e qualcuno dovrà andare a ripescarla. Da qui, per fortuna, gli eventi non sono esattamente prevedibili specie perché il film ha un’ascesa in fatto di violenza, efferatezza e sangue che non appartiene alla saga di Rambo. Per la prima volta la consueta macchina di morte è messa in scena per far risaltare la spietatezza, la confidenza con la brutalità e la mancanza di pietà.
La ragione di tutto ciò sembra stare in un ragionamento piuttosto bieco. Nulla di quello che fa Rambo in questo film è giustificabile agli occhi del pubblico. Perché possa farlo e rimanere percepito come un protagonista positivo, la storia deve quindi eccedere nella preparazione all’azione così che si possa eccedere anche nella punizione. Grazie al più bieco dei precedenti, al più abietto dei crimini e alla più melodrammatica delle motivazioni, Rambo agli occhi del pubblico può avere tutte le ragioni sufficienti per esagerare con la violenza in un vengeance porn, fino a culminare in un momento in stile Indiana Jones e Il Tempio Maledetto inevitabilmente grottesco.