Ralph Spaccatutto, la recensione
Il 52° lungometraggio a cartoni animati dei Walt Disney Animation Studios sarà anche ambientato fra i freddi bit e byte dei videogiochi, ma è comunque capace di scaldare i cuori...
Le strade che partono dal CalArts sono destinate a riportare, spesso, all'ovile le varie pecorelle che si “smarriscono” per strada.
E dallo schermo televisivo, Moore è passato ora a quello, dai confini e dalla superficie ben più amplia, della sala cinematografica con il 52° lungometraggio prodotto dai Walt Disey Animation Studios, Ralph Spaccatutto.
La realtà dei fatti è un'altra: se è vero che i lungometraggi di diretta emanazione videoludica lasciano praticamente sempre a desiderare, mentre quelli che ripropongono alcune delle dinamiche tipiche di questo medium interattivo riescono a essere molto più incisivi – pensiamo ai casi macroscopici di un Matrix o un eXistenZ a quelli più sottili di un Lola Corre, Essere John Malkovich o Ricomincio da Capo – Ralph Spaccatutto impiega i mondi digitali dei videogame come sfondo, come tavolozza sulla quale far muovere i personaggi di una storia disneyana al 100%. Wreck It-Ralph non parla dei giochi interattivi così come Toy Story non parla, necessariamente, di giocattoli. Entrambi, come ogni ottimo film, usano un determinato “espediente narrativo” come grimaldello per scalfire le eventuali difese dello spettatore e penetrare all'interno della sua mente e, fattore anche più importante, del suo cuore. Toy Story, pellicola dall'importanza seminale senza eguali negli ultimi 17 anni di cinema animato, raccontava una vicenda in cui contavano l'amicizia, il superamento delle diffidenze reciproche di un vecchio cowboy di pezza e di un modernissimo Space Ranger di plastica lucente. Ralph Spaccatutto parla di etichette appiccicate addosso per sterile convenzione, di ruoli prestabiliti – anzi, più che prestabiliti attesi – e lo fa all'interno di un riuscito film per famiglie che, come i cari, vecchi film Disney di “una volta” arriva nelle sale giusto in tempo per le feste.
Tutto questo discorso non significa certo che non siano presenti i riferimenti geek, l'ammiccamento a tutti quei videogiocatori ormai adulti, e magari con prole al seguito, che ai tempi della loro infanzia hanno fatto spendere un vero e proprio patrimonio ai propri genitori fra interminabili sessioni di gioco ai tanti cabinati che hanno fatto la storia di questa forma d'intrattenimento e l'acquisto delle costosissime cartucce per le varie console che si sono avvicendate nei salotti delle case negli anni ottanta e novanta.
Sulle pagine di BadGames, la sezione del nostro network dedicata proprio al digital entertainment, abbiamo già pubblicato una serie di dossier incentrati sulle varie guest star che compaiono nel film anche se, personalmente, le citazione più gustose presenti sono quelle che si possono intravedere, di sfuggita, nelle pareti della Game Central Station, la versione digitale della newyorkese Grand Central Station. E' in questa location che possiamo leggere, fugacemente, Aerith Lives – un omaggio alla morte di Aerith, uno degli eventi più traumatici per gli amanti della saga di giochi di ruolo della Square Enix Final Fantasy – e, soprattutto, l'immortale “All your base are belong to us”, uno dei più celebri errori di traduzione in lingua inglese di un videogioco nipponico, Zero Wing nello specifico. Nel momento in cui il gigantesco Ralph, villain di una sorta di cugino alla lontana di Donkey Kong Jr., finisce all'interno del sofisticatissimo shooter fantascientifico Hero's Duty, il film si permette anche una brevissima tirata d'orecchie al videogioco moderno, mostrandoci un personaggio proveniente dai rassicuranti codici di un gioco a 8-Bit travolto dalla grafica ad alta definizione, dagli effetti surround e dalla celebrazione del militarismo in chiave spaziale di un surrogato di Halo et similia.
Va semmai detto che la scelta di raccontare una storia ambientata nei mondi di un passatempo che una volta era considerato “borderline” attesta ulteriormente come i videogiochi, e i suoi beniamini, siano ormai delle vere e proprie icone condivise a livello globale e intergenerazionale.
Celebrazioni nerd, o geek, a parte, Ralph Spaccatutto è una storia fatta di proverbiali “buoni sentimenti” in cui però ad essere zuccherose sono solo le ambientazioni del gioco di Go-kart Sugar Rush. Rich Moore, di certo memore della freschezza e della rapidità e dei tempi comici delle note serie televisive cui ha lavorato, i già citati Simpson, ma anche Futurama e l'iconoclasta e politicamente scorrettissimo Drawn Togheter, traduce perfettamente sullo schemo la sceneggiatura di Phil Johnston e Jennifer Lee con un film ricco d'inventiva e amore nei riguardi dei suoi personaggi, sia quelli buoni che quelli cattivi (a voi il compito di scoprire le varie sfumature). Malgrado l'ambientazione “cibernetica”, è un lungometraggio che riesce a scaldare il cuore per come racconta la storia di due outsider, due sfigati guardati con sospetto da tutti, e per diverse motivazioni, come Ralph e Vanellope. Un “cattivo” ben lungi dall'essere tale e una piccola e adorabile “glitch”, un errore di sistema che non dovrebbe neanche esistere.
C'è poi un altro piano, un altro livello di fruizione che rende Ralph Spaccatutto un'opera degna di appartenere ai classici dell'animazione Made in Disney.
Il cartoon è una vera e propria gioia per gli occhi.
Non tanto per la gestione dell'elemento stereoscopico, che comunque è orchestrato in maniera notevole, quanto per le scelte estetiche adottate dal team creativo. Nel riprodurre i vari “ambienti di gioco” gli animatori hanno optato per uno stile capace di variare dalla scattosa Pixel Art dall'animo 8-Bit, ai colori saturi, accessi delle console che ci hanno accompagnati nel passaggio dai 16 ai 64 bit (Sugar Rush è un tributo grande come un palazzo a Mario Kart 64) passando per le fantasmagorie high-tech dei moderni Fps. Ma, lo ribadiamo, nonostante il setting videoludico, nonostante la spettacolarità di un impianto artistico e scenografico che riserva una sorpresa dietro l'altra, Ralph Spaccatutto è un film che, per prima cosa, fa trasparire tutto il suo cuore e la sua umanità.
L'unico vero neo in mezzo a tutto questo è la colonna sonora di Henry Jackman, davvero eccessivamente anonima e quasi fuori luogo in un'opera dove tutto è confezionato con cura certosina.