Rainbow, la recensione

La storia di Il mago di Oz è usata per un racconto moderno di una ragazza in cerca della madre in un mondo underground

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Rainbow, il film disponibile su Netflix dal 30 settembre

Dopo qualche minuto dall’inizio di Rainbow è già il momento di collegare tutti i puntini: la protagonista Dora, un cagnolino in braccio, la casetta nella fattoria, un tornado nello sfondo, il titolo Rainbow. Questo film di Paco Leon è una specie di rimessa in gioco di Il mago di Oz. Una dotata di uno spirito “underground per sentito dire” stranamente fermo agli anni ‘90. La protagonista infatti ha capelli tinti di rosso fuoco e oltre a questo nel film si possono trovare moltissimi capisaldi della cultura metropolitana di 30 anni fa, dall’uso di musica elettronica al parkour (se è possibile fare un appunto: manca la capoeira). Ma anche sorvolando questa strana forma di retrodatazione della moda lo stesso ci sono in Rainbow tutti i luoghi comuni della modernizzazione underground di una storia vecchia: droga (check!), gender fluidity (check!), bordelli (check!), streghe=donne ricche (check!), allucinazioni (check!)... Tutte idee che, è facile immaginarlo, devono essere sembrate geniali in fase di scrittura.

Lo sono molto meno nel film fatto e finito, ma soprattutto non servono granchè. Dora infatti va via di casa in cerca della madre, non vuole tornare ma vuole capire come mai non l’abbia mai conosciuta e in questo viaggio incontrerà tre compagni di viaggio con i loro problemi. Fino ad una festa finale che niente ha a che vedere con Il mago di Oz. Il punto è che il film di riferimento non è usato davvero. Del mago di Oz non sono sfruttati i punti di forza (lo sradicamento e l’avventura allegorica) né sono sfruttati i ribaltamenti di un cinema che viene da un’epoca lontana (come l’idea di inclusività a patto di conformarsi). Semmai ne sono sfruttati i simboli noti (la strada gialla, i nomi, la comitiva…), cioè il livello zero.

Meglio dimenticare questo parallelo e concentrarsi su quello che il film è di suo, cioè la storia del viaggio di una ragazza e dei rapporti con un’altra serie di donne. Pure lì però questo film che dura 2 inspiegabili ore, è molto confuso. Rifiuta una narrazione convenzionale convinto di potersi permettere di meglio ma non ha davvero nessuna idea di come si possano rimescolare le carte di questo viaggio picaresco. Addirittura anche scendendo di più a guardare solo i singoli episodi, i singoli incontri e segmenti non c’è niente di realmente significativo (come invece vorrebbe tanto il film) o almeno di intrattenimento (come potrebbe sperare lo spettatore)!

La vera verità è che tutto in Rainbow esiste per la teorica coolness della sua idea (Dorothy ma con i capelli tinti di rosso! Il mondo colorato ma frutto di allucinazioni da droga!) e tutto muore per la molto concreta incapacità di trasformare delle idee che devono essere sembrate fantastiche in un film vero e proprio.

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