Benny Chan, scomparso nell’agosto 2020 durante la post-produzione, chiude con
Raging Fire un’onorata carriera, che, insieme a quella dei suoi colleghi più celebri come John Woo o Johnny To, ha fissato l’idea di
action movie anni ’80 e ’90 di Hong Kong. Un film non perfetto, ma che comunque si rivela un degno epitaffio.
La storia vede come protagonista Cheung Sung-bong (Donnie Yen), un poliziotto dal carattere rigoroso e inflessibile, tanto da renderlo un outsider agli occhi dei colleghi e da condizionare negativamente la sua carriera; il più giovane Yau Kong-ngo (Nicholas Tse), è invece l’ex suo protetto, ora passato dall’altra parte della legge per vendicarsi di un torto subito. Il destino porterà i due uomini uno contro l’altro.
In uno svolgimento non certo originale o sorprendente, l’interesse principale della trama sta proprio nella relazione tra loro due, riprendendo il tema dell’amicizia virile e del gioco di specchi tra due figure solo apparentemente contrapposte, che ha fatto la fortuna del cinema del suo paese (come in
The Killer di John Woo). Il primo appare come un agente della giustizia, l’altro del caos, ma i confini si riveleranno molto più labili. L’attenzione all’aspetto umano e sentimentale, tipico del regista (fin dai tempi di
A Moment of Romance) raggiunge qui un livello ulteriore, per come anche Yau ci appare vittima tanto quanto carnefice, in un’atmosfera opprimente che pervade tutta la narrazione. Ridotti i ralenti e i momenti più enfatici, trovano spazio frequenti dissolvenze che punteggiano le sequenze. Efficace mezzo per rallentare il ritmo frenetico e porre l’accento sul versante intimistico tra le tante scene d’azione.
Queste sono messe in scena da Chan con una buona dose di ipertrofia e ipercinesi, mettendo in rilievo i corpi e i movimenti dei protagonisti, ma connotandole con una "materialità" e crudezza notevole. Dal punto di vista tecnico, risalta soprattutto la fotografia, che con luci al neon da toni fortemente impressionistici gioca su evidenti contrasti. Gli uffici della polizia sono di un grigio metallico, simbolo della rigidità di tutti quegli ambienti che non comprendono le ragioni dei protagonisti. Quelle dei bassifondi di colori accesi, che spaziano da verde al rosso al giallo. Un lavoro sulle immagini che infonde un forte impatto visivo.
E poi, ovviamente, c’è Hong Kong, con la sua skyline in cui non c’è spazio per altro che grattacieli, con la sua commistione tra mandarino e inglese, sintomo da sempre di una popolazione smarrita e confusa. Una città spesso colpita nei centri simbolo del capitalismo e del consumismo: come in
New Police Story, gli scontri a fuoco avvengono in un centro commerciale e c’è sempre una questione privata che si intreccia con una pubblica. Ma qui questo elemento sembra essere solo latente, mai sfruttato appieno: ad anni di distanza dall’
Handover, l’interesse volge verso l’aspetto privato piuttosto che verso quello sociopolitico. Un importante livello di lettura assente in
Raging Fire, che in questo versante sembra perdere il confronto con altre opere.
Dopo lo scioglimento, non c’è epilogo per la storia: il film e tutto il cinema del regista si chiudono su una nota che non lascia spazio a catarsi o a un filo di speranza. La dimensione noir prende dunque il sopravvento, rinsaldando il punto di forza della narrazione, il suo cuore umano e desolato tra le tante, spettacolari, esplosioni.