La Ragazza Nella Nebbia, la recensione

Tutto sembra andare per il meglio finchè La Ragazza Nella Nebbia segue il suo investigatore, poi invece il film cambia punto di vista e parte la valanga

Critico e giornalista cinematografico


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Stavolta è lo scrittore del romanzo ad aver sceneggiato e diretto il film. La Ragazza Nella Nebbia su carta e su schermo sono entrambi scritti (e il secondo diretto) da Donato Carrisi e si sente, nel bene e nel male. Fin da subito lo srotolarsi della storia traspira quel passo complicato dei romanzi e mette in scena personaggi senza la fretta del cinema di spiegarli immediatamente davanti allo spettatore. Tuttavia, più La Ragazza Nella Nebbia avanza, più sembra evidente che il problema principale sia quello del tono di questa storia di una sparizione in una tranquilla comunità montanaro-religiosa, in cui arriva ad indagare un poliziotto di città, ben presto seguito dalla televisione e il clamore che ne consegue.

Eppure Carrisi a lungo gestisce un’impresa ambiziosa e complicata con grande capacità. Seppur a fatica tiene a lungo a bada lo show delle facce di Servillo, mettendo a servizio il suo fascino indubbio e la sua immancabile tendenza a piacere allo spettatore, con un personaggio scomodissimo di cui è complicato capire le intenzioni e su cui è molto difficile esprimere un giudizio definitivo. Un investigatore all’americana che, come l’agente speciale Dale Cooper appena arriva a Twin Peaks, si presenta come un alieno risolutore e organizza una comunità, mette in scena il suo saper essere brillante, con 2-3 colpi ad effetto e crea un ambiente propedeutico all’indagine sfruttando invece che subendo la morbosità dei media, come se il paesaggio giornalistico peggiore possa essere messo a frutto della scoperta dell’assassino. Addirittura La Ragazza Nella Nebbia arriva fino a mostrare con discrezione come questo rapporto ambiguo con i media pure sia complesso, perché questi non sono una bestia che è davvero possibile gestire ma da cui accettare anche di essere mangiati.

Scritto molto meglio di come è messo in scena, il film trasuda una complessità che non si trova nello svolgimento, suggerisce di avere intenzioni molto sofisticate che però vengono spesso tradite con esiti semplici e scatti subitanei. Ma più di tutti ad essergli nocivi sono i frequenti cambi di tono. A tratti avventuroso come fosse I Fiumi di Porpora (senza esserlo), ad altri molto intelligente e in altri ancora veramente classico, questo di Donato Carrisi è un film eterogeneo che fa spesso avanti e indietro con i tempi per raccontare la storia da molteplici punti di vista. Partendo con la fine, viaggia a ritroso e ripercorre varie volte le date intorno a Natale per mostrare il detective e il principale accusato nei giorni cruciali. È senza dubbio l’intuizione migliore di tutte, muoversi nei meandri dei momenti cruciali, conscio che la parte più avvincente di tutto in un film non sia la maratona che è un’indagine ma lo scatto dei primi giorni, quando il crimine (forse) è stato commesso, quando arriva la polizia e bisogna scegliere le prime mosse.

È allora quando il film “ricomincia” e decide di lasciare il detective per seguire l’indiziato e adottare il suo punto di vista che tutto inizia a crollare. Con sempre meno cura il film vira dalle parti dei thriller in cui qualcuno aveva messo a punto un piano così sofisticato da prevedere tutto il prevedibile. In una valanga inarrestabile tutta l’ultima parte, solitamente determinante in un giallo, crolla addosso al film spazzando via tutto quel che di buono si era fatto a colpi di rivelazioni incredibili e stonate. Quasi simbolicamente l’ultimissima scena è un delirio inaccettabile, uno in cui un personaggio di cui praticamente non sappiamo niente, di cui non ci è stato detto niente e che non ci interessa si rivela cruciale. Una scelta che, anche intesa, come schiaffo ai soliti svolgimenti è lo stesso terribile.

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