La ragazza della palude, la recensione

In un film che vuole raccontare la difficoltà ad accettare la diversità non è possibile rintracciare alcuna diversità. Anzi

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di La ragazza della palude, in uscita il 14 ottobre in sala

Quanto è possibile credere ad una storia in cui la protagonista cresce da sola nelle paludi americane, fin da bambina, scalza e lontano dalla civiltà, per poi diventare un’adolescente dal viso pulito, i vestiti carini e i capelli a posto? Il cinema chiede da sempre un po’ di buona disponibilità nel pubblico a credere l’implausibile, ma la volontà di La ragazza della palude di insistere sul fatto che la protagonista è respingente, è selvaggia, è cresciuta lontano dagli altri e dagli altri è emarginata se non proprio ritenuta un mostro, si scontra davvero troppo contro l’apparenza eterea, angelica, leggera, delicata e di buona famiglia della protagonista.

Che invece la famiglia sarebbe il problema numero 1, una madre fuggita e un padre violento perché traumatizzato dalla guerra che pure ad un certo punto se ne va. Così la bambina sarà cresciuta dagli elementi migliori della comunità ma più che altro da sola, e si scontrerà prima con il maschilismo anni ‘60 dei ragazzi che la vogliono possedere prima che amare (tutti tranne uno, chiaramente) e poi con i pregiudizi di una società che non accetta che lei sia diversa, libera, fuori dagli schemi e non esista a pregiudicarla quando è accusata dell’omicidio di uno dei figli delle famiglie migliori.

Ecco per una trama del genere forse ci voleva qualcosa di diverso da questa versione di Daisy Edgar-Jones, calcata sul modello fenomenale che aveva interpretato in Normal People, occhi grandi e un profumo così buono che passa attraverso lo schermo. Perché per fare in modo che La ragazza della palude tocchi le corde di Il buio oltre la siepe, con la sua comunità piena di pregiudizi e un buon avvocato d’ufficio che vuole fare la cosa giusta a tutti i costi (surrogato paterno pronto per l’uso), serve che l’emarginata abbia una sua credibilità e non che appaia come un modello di ragazza impeccabile. E anche le sue note intellettuali dovrebbero essere nascoste da un’apparenza impresentabile, altrimenti non possono parlare (come vorrebbe il film) del fatto che ciò che è dentro non deve corrispondere per forza a ciò che è fuori.

Olivia Newman, che questo film lo dirige, non ha il coraggio di creare insomma una vera outsider, e anzi dà forma ad una ragazza della palude accanto. Così quando ne vediamo e scopriamo il lato artistico, sensibile, intelligente e corretto, non ci stupisce troppo e lo scontro con i ragazzi ricchi e per bene, dalla mentalità ristretta, sembra tutto interno alla medesima tipologia umana. Con tutte le minoranze poco rappresentate e realmente discriminate ed emarginate, questa specie di riscossa bianca, molto in forma e molto bella, che pretende di sedersi al tavolo di coloro i quali vengono messi in un angolo e ritenuti dei mostri perché diversi, fa un po’ sorridere.

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