Qui rido io, la recensione | Venezia 78

Il trionfo del cinema di sistema trova in Qui rido io una delle peggiori idee di pubblico possibili, persone a cui trasmettere dati e non da far ragionare

Critico e giornalista cinematografico


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Qui rido io, la recensione | Venezia 78

Nonostante racconti di un genio (e non è la prima volta) Mario Martone non è Hayao Miyazaki e a Venezia non ha portato il suo Si alza il vento, cioè non gli interessa per nulla indagare i meccanismi della creatività, gli interessano la storia e lo spirito nazionali italiani attraverso la sua produzione culturale. È il lavoro di trasmissione e rappresentazione dell’identità culturale del servizio pubblico tradotto al cinema. Leopardi come Scarpetta in sceneggiati cinematografici di grandissimo spolvero e sontuosa messa in scena, con tutti gli attori giusti al posto giusto e niente di sbagliato, nemmeno i voluti anacronismi quando ci sono. Specialmente qui gli interessa fare didattica e non cinema in un film che, non a caso, ha come unica idea di messa in scena quella di dipingere una realtà che è una continua messa in scena, con i personaggi che entrano negli ambienti come si farebbe a teatro, annunciati e accolti per nome e cognome, e spesso comparse che li guardano come spettatori di una continua rappresentazione.

La lente attraverso cui Martone legge Scarpetta è quella di un uomo pieno di sé, padrone della propria vita e soprattutto di quella di una famiglia che tiene vicinissima, tra teatro e un palazzo in cui abitano tutti, legittimi e illegittimi. Come quando fa le porzioni a tavola, dando a ogni figlio un piatto diverso con una ragione esplicita, così non si vergogna di preferenze, figli e figliastri (nel senso letterale del termine). Ma ancora di più, lo capiremo solo alla fine in una chiusa (quasi) a sorpresa, la vera lente è quella dell’ambiente e del mondo in cui è cresciuta e si è formata un’altra famiglia. Scarpetta, insomma, è un mezzo per un altro fine.

Tuttavia questa storia di Scarpetta potrà essere un po’ più dinamica e interessante dei film precedenti di Martone, ma rimane la definizione stessa del sontuoso cinema di sistema, un cinema di papà di gran fattura e messa in scena ma di scrittura deprecabile e con una visione del proprio pubblico insopportabile. Un film di concetti, nomi, dati, numeri e mai di sensazioni e coinvolgimento, tutto all’insegna del didascalismo più spinto e della totale sfiducia nelle capacità di lettura delle immagini degli spettatori. Uno in cui i dialoghi sono usati per fornire informazioni come un radiodramma non curandosi del fatto che i personaggi si ripetono a vicenda cose che già sanno: “Noi siamo gli Scarpetta, tu lo sai quanto ci è voluto per arrivare qua, costruire questa casa e questo palazzo con un appartamento sotto per tua sorella” (dice Scarpetta alla moglie!) - “Il punto non è contrastare Scarpetta in quanto uomo ma è una battaglia per l’arte” (dicono tra di loro gli oppositori) - “Voi, che siete il più grande filosofo d’Italia...” (detto allo stesso Benedetto Croce!).

Non a caso il momento migliore (che lascia sperare in un altro film che non arriva mai) è quando capiamo per la prima volta che un bambino è figlio illegittimo di Scarpetta. Nessuno ce lo dice (che strano!) ma il montaggio dei volti e dei piani di ascolto durante delle prove teatrali in cui, recitando, il protagonista dice al bambino di essere suo padre, ci fa capire che è anche la verità. Per un attimo questo film dice una cosa oltre alla sua sceneggiatura, cioè parla di qualcosa di più alto, la storia eterna di quello che non riusciamo a dire o a capire dalla mera realtà e che trova strade che al cervello sono sconosciute tramite la forza del falso e della rappresentazione.

Il concetto potrebbe tornare in un finale in tribunale che invece più che altro finisce a ricordare Prova a incastrarmi di Sidney Lumet.

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