Quello che non vedi, la recensione

Con tutti i crismi del cinema d'amore malattia Quello che non vedi crea un film vero e bello lavorando con impegno su ogni componente e soprattutto sulla recitazione

Critico e giornalista cinematografico


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Con quell’inizio con voce fuori campo che racconta la propria malattia Quello che non vedi si qualifica subito per il campionato dei film adolescenziali con terribili malattie e teneri amori che le contrastano. Eppure nonostante come molti di quei film anche questo sia tratto da un romanzo e nonostante cerchi come possa di stare al passo delle svolte comandate (una nuova scuola, una ragazza che si interessa a lui, il desiderio di guarire che aumenta, la malattia nascosta e poi scoperta, le ricadute nei momenti topici) in realtà questo strano film vuole molto di più e svela un impegno e una cura maggiori del solito. È, insomma, bello.

Quello che non vedi cerca la profondità di approccio nella quantità, in un minutaggio grosso (due ore) e un ritmo che non cerca di farle sembrare meno di quel che sono. È una storia ossessiva che torna spesso sugli stessi punti e ci insiste, in cui i protagonisti sono i problemi, la psicosi che affligge il protagonista e che va e viene. A differenza dei film suoi simili non è il rapporto con gli altri il metro dell’emotività ma il rapporto con sé in un lungo processo di alti e bassi. La lotta contro la propria testa per essere normale.

Fin dalla trovata di avere dei personaggi immaginari intorno al protagonista per spiegare e rappresentare la schizofrenia, Freudenthal (già regista di Diario di una schiappa e Percy Jackson) e lo sceneggiatore Nick Naveda fanno capire di voler mettere al centro proprio quello. Il racconto della lotta per non essere malato. E non è una cattiva idea che il protagonista faccia anche l'antagonista, non tramite il classico sdoppiamento di personalità ma in una lotta al proprio interno per apparire normale, per avere una vita, conquistare degli obiettivi.

Quel che accadrà sarà da un lato estremamente convenzionale (c’è la passiona modaiola per la cucina), ed estremamente adolescenziale (ballo di fine anno incluso), specialmente negli esiti e in un finale ben poco memorabile, ma dall’altro anche realizzato, scritto e diretto con una passione vera per il melodramma che consente a quegli eventi e quelle svolte risapute di fare il salto di qualità da banale a classico. E quindi commuovere. È uno sforzo che si misura con il lavoro, lavoro di casting innanzitutto perché Charlie Plummer (già lodato per Leane on Pete) è una scelta chiara: è bravo e non tanto per il range di espressività dal sofferente al tranquillo, dal rabbioso al malato, ma perché regge costantemente un personaggio poco simpatico e spigoloso comunicandone la fragilità dietro i tentativi disperati di normalità

Fragile un malato lo è per definizione, lo dice la sceneggiatura che lo è, ma Plummer lo anima di una vicinanza allo spettatore non comune, soprattutto regge un film tutto sul suo volto e il suo corpo senza annoiare. E gli altri attori non sono da meno.

Il grandissimo Walton Goggins è cruciale nella svolta principale del film, cruciale la sua storia di attore (fatta di villain) impressa nel suo volto e cruciale la sua capacità di saltare dall’altra parte della barricata in un attimo sempre con il solo volto. Ma similmente anche un comprimario di lusso come Andy Garcia riesce a rendere presentabile l’appoggio spirituale e l’introspezione religiosa interpretando un prete di grandissima umanità. Indossa la tonaca con il carisma di un professore o di un mentore empatico.

Partito come un teen drama da quattro soldi, simile a molti altri, Quello che non vedi scena per scena si guadagna sul campo il titolo di melodramma vero e non è giusto che venga penalizzato dalla somiglianza a film peggiori di lui, perché invece ha la determinazione corretta, vuole lavorare sui sentimenti con l'ossessività pornografica dei melò, il genere in cui il coltello gira sempre nella piaga fino a che i drammi non montano a nuvola e diventano così grandi da comprendere dentro di sé tutto il pubblico. Invece di inventare strade nuove capisce la storia, trova gli attori migliori, la adatta nella maniera giusta e la valorizza come nessun altro fa.

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