Quell'estate con Iréne, la recensione | Berlinale 2024

La prima vacanza solitaria di due ragazze, in fuga da una vita reclusa diventa un film dalla stupefacente assenza di partecipazione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Quell'estate con Iréne, il secondo film di Carlo Sironi, presentato nella sezione Generation14+ del festival di Berlino

La presentazione del progetto di Quell’estate con Iréne deve essere stata sicuramente convincente. Il film ha tutti gli assunti giusti, quelli che promettono la creazione di un senso profondo, almeno sulla carta. Nella pratica è tutto così astratto che mancano le porte attraverso le quali il pubblico, anche il più volenteroso, possa entrare nel racconto. Non è una novità per Carlo Sironi, già il suo primo film (Sole) era caratterizzato dal fatto che non succedesse nulla e in compenso, quando qualcosa accadeva, era mostrato senza il minimo trasporto. La stessa cosa la ritroviamo qui, unita a una cura tutta speciale per una recitazione asettica, battute che non dicono molto e nemmeno lo tradiscono. Sia chiaro, non è cattiva recitazione, anzi giungere a questo risultato è molto complicato e richiede un lavoro preciso, ma questa scelta non si fa mai stile e quindi non trova mai un senso.

Non siamo insomma in un film di Aki Kaurismaki, in cui tutto nella messa in scena tradisce la medesima impostazione fredda della recitazione, mentre un mondo lussurioso di colori e una scrittura piena di anse dicono il contrario, qui l’emotività più profonda cui quest’astrazione dovrebbe condurre non emerge da nulla, e (cosa ben più grave) non si sente neanche il sapore dell’ambientazione balneare da prima vacanza in solitaria giovanile. Le protagoniste sono due ragazze, a lungo rinchiuse per una malattia, che decidono di fuggire per passare una vacanza normale insieme. Il film quindi imposta dei personaggi eccezionalmente chiusi e timorosi (per via della malattia) per poter enfatizzare la loro apertura al mondo. Lo arriviamo a capire con fatica però, perché Quell’estate con Iréne ha una riluttanza eccessiva a rilasciare informazioni, una che dovrebbe servire a tenere desta l’attenzione e ricompensare lo spettatore che scandagli il film per trovarle, e invece ha il solo risultato di creare un racconto che è mai davvero chiaro nemmeno nelle sue basi.

In un tentativo eroico di contraddire il noto assunto di Hitchcock, secondo il quale il cinema sarebbe la vita senza le parti noiose, Sironi riprende la realtà sottraendogli l’enfasi del cinema, trasformandola in una versione rallentata della realtà in cui tutto avviene in un oceano di stasi. Silenzi e lunghe inquadrature levigate e molto lavorate, nelle quali si scorge un grosso lavoro di costruzione, senza che però poi si possa ammirare la costruzione finita. Vediamo le protagoniste temere, sentirsi attratte, confrontarsi e specchiarsi l’una nell’altra ma non riusciamo mai davvero a partecipare a questa fetta della loro vita da cui il film fa di tutto per tenerci lontani. Le vediamo in una vacanza marittima giovanile ma non ne sentiamo mai quell’atmosfera (che pure il film racconta) di scoperta personale e sessuale. Le vediamo desiderare ma non sentiamo mai questo desiderio perché tutto si spegne ancor prima che possa accendersi.

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