Queer, la recensione: Guadagnino e un grande Daniel Craig entrano nella testa dello spettatore

Dentro Queer c'è un senso profondo di ricerca dell'altro, di malinconia e di bisogno di contatto, e la delizia è come sia tutto espresso dalla messa in scena

Critico e giornalista cinematografico


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Distratti da molte delle caratteristiche più evidenti dei film di Luca Guadagnino (la scrittura sfrontata, il rapporto unico di fiancheggiamento e tradimento con il cinema americano, il lavoro sui corpi e la recitazione, la scelta dei soggetti sempre spiazzante e il valore grafico della sua messa in scena), è stata trascurata a lungo una delle caratteristiche più cruciali del suo modo di fare il regista, una che da Chiamami col tuo nome in poi è così determinante da condizionare tutto il resto: la capacità di creare ambienti attraverso una coordinazione eccezionale del lavoro sul set. Il complesso di costumi, scenografia, fotografia e uso degli attori, unito poi al lavoro di post-produzione e di musiche e sonoro, crea nei film di Luca Guadagnino situazioni o ambienti audiovisivi (nel senso più largo possibile) che raccontano mondi esteriori e interiori in modi che ci consentono di comprenderne la natura intima anche se questa non viene raccontata direttamente.

Si tratta di una questione di artigianato, la capacità tecnica di mettere in scena e coordinare i talenti che sa scegliere in modo che possano dare il massimo verso una visione unica. Questo consente la creazione non solo di singole immagini, ma proprio di luoghi del cinema, in modi che sono così espressivi che poi ciò che in quei luoghi accade diventa secondario. L’ambientazione parla e dice tutto quello che di importante va ricevuto. Stavolta è un coacervo di vie del Messico degli anni ’50, una zona di bar, localacci e motel frequentati da americani e da omosessuali, calda e appiccicosa. Lì Queer ricrea esattamente il feeling degli anni ’50 di Burroughs, quelli derelitti e costantemente storditi, in questo luogo non di perdizione e nemmeno di piacere, quanto di transizione, in cui nessuno è a casa sua e tutti però si sono adattati a stare lì.

La messa in scena è tutta in tono e stile anni ’50 con costanti iniezioni anacronistiche grazie alle musiche (alcuni abbinamenti con i Nirvana funzionano molto poco, mentre la colonna sonora di Reznor e Ross calza di più) e degli effetti visivi un po' kitsch che non pagano molto. Allo stesso modo anche le costanti citazioni nella forma di copertine di libri o di una scena vista in un cinema dell’Orfeo di Cocteau non sono il massimo. Ma sarebbe da pazzi cavillare su dettagli e momenti meno riusciti di un film che ha una tale capacità di andare dritto alla radice del disperato bisogno del suo protagonista di entrare dentro qualcun altro a tutti i livelli, fisici e mentali. Sarebbe da pazzi non comprendere che il racconto della ricerca di qualcuno è così perfettamente contenuto in un mondo mesto da riuscire a parlare non con la lingua del realismo e del naturalismo ma con quella del melodramma, che i sentimenti non li rappresenta ma li evoca ingrandendoli.

Il protagonista non è alla ricerca di un amore, ma di qualcosa di più curativo, il rimedio a qualcosa. Guadagnino sceglie di mostrarlo direttamente (quando il protagonista immagina di toccare l’uomo di cui è invaghito) e indirettamente con la recitazione, e proprio in questo trova in Daniel Craig l'attore perfetto. Di tutti i protagonisti che ha avuto è lui quello con cui sembra si sia creata l’affinità migliore: in ogni momento Craig contamina la sua recitazione di una tenerezza che sa accoppiare al fare deciso del personaggio. E questa tenerezza derelitta è esattamente quella che i colori esprimono, quella che le musiche raccontano e che anche la trama di ricerca di una pianta che consente la telepatia per poter finalmente entrare in contatto con qualcuno, cerca di spiegare. Quando tutto è così tanto in armonia verso un diapason delicato, Queer è un film, senza mezzi termini, gigantesco. Per fortuna, per la maggior parte della sua durata, è così.

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