Queer, la recensione: Guadagnino e un grande Daniel Craig entrano nella testa dello spettatore
Dentro Queer c'è un senso profondo di ricerca dell'altro, di malinconia e di bisogno di contatto, e la delizia è come sia tutto espresso dalla messa in scena
Distratti da molte delle caratteristiche più evidenti dei film di Luca Guadagnino (la scrittura sfrontata, il rapporto unico di fiancheggiamento e tradimento con il cinema americano, il lavoro sui corpi e la recitazione, la scelta dei soggetti sempre spiazzante e il valore grafico della sua messa in scena), è stata trascurata a lungo una delle caratteristiche più cruciali del suo modo di fare il regista, una che da Chiamami col tuo nome in poi è così determinante da condizionare tutto il resto: la capacità di creare ambienti attraverso una coordinazione eccezionale del lavoro sul set. Il complesso di costumi, scenografia, fotografia e uso degli attori, unito poi al lavoro di post-produzione e di musiche e sonoro, crea nei film di Luca Guadagnino situazioni o ambienti audiovisivi (nel senso più largo possibile) che raccontano mondi esteriori e interiori in modi che ci consentono di comprenderne la natura intima anche se questa non viene raccontata direttamente.
La messa in scena è tutta in tono e stile anni ’50 con costanti iniezioni anacronistiche grazie alle musiche (alcuni abbinamenti con i Nirvana funzionano molto poco, mentre la colonna sonora di Reznor e Ross calza di più) e degli effetti visivi un po' kitsch che non pagano molto. Allo stesso modo anche le costanti citazioni nella forma di copertine di libri o di una scena vista in un cinema dell’Orfeo di Cocteau non sono il massimo. Ma sarebbe da pazzi cavillare su dettagli e momenti meno riusciti di un film che ha una tale capacità di andare dritto alla radice del disperato bisogno del suo protagonista di entrare dentro qualcun altro a tutti i livelli, fisici e mentali. Sarebbe da pazzi non comprendere che il racconto della ricerca di qualcuno è così perfettamente contenuto in un mondo mesto da riuscire a parlare non con la lingua del realismo e del naturalismo ma con quella del melodramma, che i sentimenti non li rappresenta ma li evoca ingrandendoli.