Queen & Slim, la recensione

Più di un problema di scrittura in Queen & Slim viene sciolto da una capacità fuori dalla norma di usare le immagini per dire tutto quello che è importante

Critico e giornalista cinematografico


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Del film manifesto Queen & Slim ha da subito la forma, l’afflato e il look. Soprattutto il look, perché a fronte di una trama molto convenzionale per il cinema afroamericano di protesta moderno, fa sfoggio di una componente visiva e immagini capaci di andare decisamente più in là delle parole, capaci di dire qualcosa di molto più coraggioso, radicale e importante sulla cultura afroamericana.

Lui e lei, entrambi afroamericani, vagamente benestanti, di certo non la solita coppia di periferia, sono a cena fuori. È un primo appuntamento con tutto l’imbarazzo e la distanza che comporta. Dopo la cena prendono l’auto e parlano un po’ fino a che non li ferma una volante della polizia. È un controllo ma la questione precipita rapidamente e una colluttazione porterà ad uno sparo, il morto stavolta è il poliziotto bianco. Sapendo che non c’è salvezza da un atto simile i due scappano, partono insieme senza meta.
Questa è la parte più macchinosa di tutto l’intreccio, la reazione dei due all’evento è sia rassegnata che emotivamente troppo blanda per chi ha capito di aver perso tutta la propria vita ed essere in fuga per evitare il peggio. Per fortuna presto diventa un dettaglio.

Perché questa odissea che quasi ricorda quella di Sweet Sweetback's Baadasssss Song, il film indipendente che lanciò la blaxploitation anni ‘70 (lì un nero accusato ingiustamente dai bianchi nel fuggire dall’autorità viaggiava attraverso Harlem incontrando diversi fratelli e sorelle che lo avrebbero aiutato a modo loro, qui i due viaggiano per l’America incontrando altri afroamericani di varie tipologie portatori di diversi pezzi della loro cultura), diventa in breve una trasformazione del corpo dei due. Partono accollati, un po’ distanti e timidi, e con il tempo, conoscendo, incontrando ed essendo costretti a starsi vicini cambiano nome e abiti, vengono fotografati in una posa da copertina di album musicale diventando icone di ribellione e stimolando manifestazioni in tutto il paese, fino a riscoprire il loro corpo. Alla fine non sono più quelli di prima. E corpo, stile, abbigliamento e musica sono i dettagli che Melina Matsoukas (regia) e Lena Waithe (sceneggiatura) usano per rappresentare la propria cultura d’appartenenza, scippata dai bianchi e ritrovata e posseduta dai due in questo viaggio/fuga.

Non tutto è proprio liscio nella scrittura del film, c’è più di un grumo e più di un momento farraginoso e confuso, oltre a un senso d’urgenza e una voglia di protestare che schiacciano l’agilità e la capacità del film di raccontare la sua storia. Però la regia di questa esordiente con alle spalle decine e decine tra i migliori videoclip di artisti come Beyoncé o Rihanna compensa tutto. Melina Matsoukas è la vera scoperta su cui il film getta una luca, capace di creare immagini potentissime e consapevole che il lavoro del cinema afroamericano deve fare adesso è tutto sul corpo e da quello parte ogni discorso serio sullo stato, sulla potenza e sul desiderio del corpo nero (lo fa Scappa - Get Out, lo fa Sorry To Bother You, lo fa Black Panther e in un certo senso Noi). Ogni istanza culturale diventa nel film un’esigenza visiva. Ci saranno amplessi, nudità conquistate, gambe, sederi, seni e anche solo silhouette ripresi come paesaggi afroamericani. Ogni posa conta, ogni sguardo e ogni atteggiamento è determinante.

E se alla fine Queen & Slim non è proprio un gioiello, ha però una capacità che è quasi unica di mostrare la maniera in cui le radici culturali afroamericane passano inevitabilmente dall’uso, dalla presentazione e dalla capacità sessuale e attrattiva dei loro corpi, senza mai dare l’idea che quell’ambito esaurisca il discorso ma anzi usandolo come trampolino per qualsiasi ragionamento più sofisticato.

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