Quattro vite, la recensione

In un gioco appassionante e intelligente con lo spettatore, Arnaud des Pallières riesce a raccontare una vita fatta di identità frammentate

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Quattro vite, la nostra recensione

Quando si intraprende la visione di Quattro vite di Arnaud des Pallières, seguendo l’indicazione del titolo ci si aspetta di vedere quattro personaggi differenti, di vedere scorrere le loro vite nell’attesa (consapevole o meno) che a un certo punto si incontreranno – in un colpo di scena o secondo un intreccio già prevedibile a monte.

E in effetti ci si chiede come la storia di Renée (Adèle Haenel), una insegnante di scuola che riceve una visita da una donna misteriosa che le chiede dei soldi, si intrecci con quella dell’adolescente Sandra (Adèle Exarchopoulos), una ragazza che abbandona la scuola per cercare lavoro e viene introdotta per caso nel mondo delle scommesse dei cavalli. E poi, a seguire, si cerca di capire cosa c’entri la vita turbolenta di Karine (Solène Rigot), una tredicenne inquieta maltrattata dal padre, costantemente ricoperta di lividi, con quelle precedenti e con quella di Kiki (Vega Cuzytek), una bambina dai grandi occhi azzurri che gioca a nascondino in un autodemolitore, e che si ritrova presto dentro a un incubo a occhi aperti. Si è talmente coinvolti dal presente di ognuna di queste, dal loro accadere nel qui e ora, nell’illusione dell’eterno presente (che è la grammatica di base del cinema) che non ci si rende conto se non molto avanti nel film (e nonostante gli indizi) che sono effettivamente la stessa persona. Tutti questi presenti sono anche passati, e insieme futuri.

Le quattro vite, volendo ragionare razionalmente, sono allora una: la vita di una donna segnata da traumi, violenze, rapporti patologici con il sesso e l’amore, che trova finalmente in Darius, in età adulta, un momento di sano equilibrio, ma pur sempre in bilico costante verso l’abisso della depressione. Ma nell’incedere del film, diviso per lunghi atti consecutivi, quasi fossero episodi, ognuno dedicato a una delle protagoniste (sì, bisogna parlare al plurale), e nell’occhio appassionato del regista, si ha la certezza che dentro a una persona coesistano più di una vita, e addirittura più di una identità. Renée è Sandra, Sandra è Karine, Karine è Kiki. O forse viceversa, a ritroso? Ora la certezza diventa un dubbio. Qual è il punto di partenza, quale il punto di arrivo?

Emerge allora in modo evidente questo dubbio costante, che è sia quello della trama – frammentata in scatole cinesi – che quello della tesi che a questa trama sottende. Forma e contenuto sono volti entrambi a instillare i medesimi interrogativi: è un approccio intelligente, semplice ma qui costantemente a fuoco, quello di des Pallières, che con una regia attenta, precisa, sempre in cerca della tensione emotiva, riesce a districarsi nel labirinto di una vita. E poco importa se le quattro attrici non si assomigliano: anzi, forse è stata la scelta più intelligente di tutte. Forse senza questo trucco, senza l’illusione della diversità non si sarebbe creato alcun meccanismo misterioso, e sarebbe venuto meno il gioco con lo spettatore. E a questo gioco des Palliéres sa giocare benissimo.

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