Quando Un Padre, la recensione

La più convenzionale e abusata delle sceneggiatura in Quando Un Padre diventa viene manipolata e trattata fino a diventare un piccolo film delicato

Critico e giornalista cinematografico


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Davanti a Quando Un Padre, una volta tanto, non si tratta di guardare come il film è fatto (abbastanza grossolano nei dialoghi, volutamente convenzionale nella recitazione e nella messa in scena) ma di guardare a come lavora su queste basi e nelle pieghe della sua convenzionalità.

Quando Un Padre (ma com’è stato possibile un titolo così vago e indeciso dal quasi mistico The Headhunter's Calling? Manca una parte della frase? Quando un padre cosa??) è un melodrammone familiare moderno, il che significa che non si potrà piangere molto come una volta né tantomeno si potranno esporre i sentimenti con la sfacciataggine di un tempo, ma la materia trattata è la medesima degli esempi classici: gli ospedali, le malattie che mettono a nudo i sentimenti prima eccessivamente coperti, il crollo e la ricostruzione di un un uomo a partire dai contrasti più elementari (egoismo contro altruismo, famiglia contro carriera).

Il film parte malissimo con una grandissima explanation, così fasulla e pretestuosa da maldisporre subito. Willem Dafoe fa finta di spiegare ai suoi due impiegati la propria filosofia aziendale, loro probabilmente la sapranno benissimop perchè in realtà è il pubblico il suo malcelato uditorio, a loro spiega i presupposti di lavoro lavoro lavoro su cui si basa il mestiere del cacciatore di teste nella sua compagnia. Controcampo di questa spiegazione che getta le basi del film sono Gerard Butler e Alison Brie, e non sembrano fare molto di più per far scoccare una scintilla di interesse.

Tuttavia già dopo una ventina di minuti le scene usuali, dialogate nella maniera più insulsa, cominciano a suonare diverse, originali. C’è qualcosa in questo film così naive che si muove nelle pieghe, tra scena e scena, qualcosa di misterioso e inaspettatamente coinvolgente.

Un padre con un lavoro che lo assorbe e la famiglia che ne risente, i figli vorrebbero vederlo di più, la moglie lo vorrebbe più attento. Stiamo molto con loro e il film sembra non partire mai, l’intreccio stenta a manifestarsi ma non c’è noia, Mark Williams dimostra che nonostante la scrittura di Bill Dubuque non brilli, lui sa cosa inquadrare e soprattutto per quanto tempo farlo, indugia più di quanto le regole di Hollywood vorrebbero, ratifica, ripropone e insiste. Quando (finalmente!) qualcuno si sente male, viene diagnosticata “la malattia” e tutto precipita, il film entra nel vivo ma quasi non ce n’era bisogno, tanto Quando Un Padre è scivolato in maniera soffice nella quotidianità dei suoi personaggi (addirittura c’è anche un dialogo sulle pratiche sessuali di coppia che stupisce per quanto è esplicito).

Non ci saranno troppe sorprese nella storia, ma ce ne sono in come Mark Williams la conduce sui lidi del classico, ce ne sono in come intende lo stringersi di tutte le scene sempre più sul bolso (ma funzionale) Gerard Butler, ce ne sono nella delicatezza che riesce a trovare tra le pieghe dei meccanismi più abusati presi di peso dal manuale della scrittura drammatica per Hollywood, quel set di regole, regolette e strutture che non muovono più nessuno ma che questa volta, trattate con la pervicacia e la capacità di lavorare sugli stereotipi di Quando Un Padre, sembrano tornare ad avere un senso.
E alla fine anche il meno originale dei colpi di scena dentro una busta diventa un momento di buon cinema serio, ricercato e a lungo atteso come un raffinato liquore al cobra preso in Vietnam.

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