Quando Un Padre, la recensione
La più convenzionale e abusata delle sceneggiatura in Quando Un Padre diventa viene manipolata e trattata fino a diventare un piccolo film delicato
Quando Un Padre (ma com’è stato possibile un titolo così vago e indeciso dal quasi mistico The Headhunter's Calling? Manca una parte della frase? Quando un padre cosa??) è un melodrammone familiare moderno, il che significa che non si potrà piangere molto come una volta né tantomeno si potranno esporre i sentimenti con la sfacciataggine di un tempo, ma la materia trattata è la medesima degli esempi classici: gli ospedali, le malattie che mettono a nudo i sentimenti prima eccessivamente coperti, il crollo e la ricostruzione di un un uomo a partire dai contrasti più elementari (egoismo contro altruismo, famiglia contro carriera).
Tuttavia già dopo una ventina di minuti le scene usuali, dialogate nella maniera più insulsa, cominciano a suonare diverse, originali. C’è qualcosa in questo film così naive che si muove nelle pieghe, tra scena e scena, qualcosa di misterioso e inaspettatamente coinvolgente.
Non ci saranno troppe sorprese nella storia, ma ce ne sono in come Mark Williams la conduce sui lidi del classico, ce ne sono in come intende lo stringersi di tutte le scene sempre più sul bolso (ma funzionale) Gerard Butler, ce ne sono nella delicatezza che riesce a trovare tra le pieghe dei meccanismi più abusati presi di peso dal manuale della scrittura drammatica per Hollywood, quel set di regole, regolette e strutture che non muovono più nessuno ma che questa volta, trattate con la pervicacia e la capacità di lavorare sugli stereotipi di Quando Un Padre, sembrano tornare ad avere un senso.
E alla fine anche il meno originale dei colpi di scena dentro una busta diventa un momento di buon cinema serio, ricercato e a lungo atteso come un raffinato liquore al cobra preso in Vietnam.