Quando la Notte - la recensione

[Venezia 2011] Cristina Comencini si presenta al Festival di Venezia con un adattamento pretestuoso e al limite del ridicolo di Quando la Notte...

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E’ vero che durante il festival di Venezia si sta con il fucile puntato ogni volta che viene passato un film italiano in concorso, che non si vede l’ora di prendere in giro l’ennesimo lavoro che non avrebbe meritato la vetrina principale e così si aspetta che ci sia una scena particolarmente banale per iniziare risate di scherno che preparino i fischi ai titoli di coda, ma nonostante questa premessa, è davvero difficile parlare bene di Quando la notte di Cristina Comencini.

Con questa sua nuova opera la regista romana porta sul grande schermo l’omonimo romanzo pubblicato nel 2009 da Feltrinelli. Un percorso preproduttivo già utilizzato in passato per La bestia nel cuore e Due Partite (di cui fu fatta anche una versione teatrale) e che aveva finora regalato prodotti di medio livello, sicuramente più interessanti per un pubblico femminile, ma comunque fluidi e credibili agli occhi di tutti. Una cifra stilistica che purtroppo non viene qui confermata, soprattutto in fase di sceneggiatura.

Tutti i personaggi vivono caratterizzazioni al limite del ridicolo, a partire dalla protagonista interpretata da Claudia Pandolfi, una mamma depressa che se ne va in montagna con il bambino di due anni che non la finisce mai di piangere e che, tanto è lo stress che le provoca, ha un attacco alla “Annamaria Franzoni” (e l’ambientazione nevosa a questo punto non diventa casuale), seppur non fino in fondo, per fortuna. Le crisi post maternità sono senza dubbio un argomento che vive nella nostra attualità molto più di quanto accadesse in passato, complici gli studi più specifici sulla malattia degli ultimi anni e il coraggio di tante donne nel parlarne sia pubblicamente che con dottori, ma non per questo se ne può apprezzare qualsiasi rappresentazione se ne faccia al cinema.

La Comencini riesce a basare l’intera tesi del suo film sulla responsabilità dell’uomo con una serie di storie a specchio di una banalità disarmante. Quasi tutti gli uomini del film sono stati abbandonati dalle rispettive donne. Lo è il vecchio nonno, lo è l’introverso personaggio interpretato da Filippo Timi e rischia di esserlo, fuori campo, il marito della protagonista. Per rimanere con la propria donna si deve essere “disposti a fare tutto”, anche a ciucciare una tetta, come avviene in una scena che entrerà negli annali del festival per quantità di risate involontarie suscitate. E se la Pandolfi se ne esce con battute da manifesto femminista da anni ’60 come “Ma perché nessuno lo dice che crescere un figlio è così difficile?”, un inguardabile Timi risponde con un “non mi sono dimenticato mai di te, per via della gamba”, dopo che per il resto del film non aveva fatto altro che ripetere le ultime battute del suo interlocutore in forma di domanda: se gli si diceva “Mi piace ballare”, lui rispondeva con “ballare?”, e così via…

L’ultima, simbolica immagine delle due funivie, con addirittura un momento di ralenti, non fa altro che sottolineare la presunzione di un progetto in cui, addirittura, tra le righe, si vorrebbe parlare anche d’amore. Per favore, anche no.

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