Quando, la recensione
Il mondo veltroniano prende di petto in Quando il vero tema della sua produzione culturale, il biasimo del presente a favore dell'esaltazione del passato
La recensione di Quando, l'ultimo film di Walter Veltroni, al cinema dal 30 marzo
Quelli di Veltroni come sempre sono film la cui scrittura ha dei modelli saldi ma anche una scarsa inventiva, distrutta dall’assenza di tecnica. Il bacino delle soluzioni a disposizione è ristretto e come nei film peggiori queste tendono a ripetersi, visto che pescano in un bacino piccolo, o al massimo ravanano nel banale gonfiate di aspirazioni che non possono sostenere. Voler fare molto con strumenti elementari. Film in cui i momenti teneri sono ben chiari e definiti e anche le musiche lo sanno, quindi si adeguano, mentre i personaggi un po’ si commuovono con occhi lucidi e un po’ guardano in silenzio.
Come già in C’è tempo o in La scoperta dell’alba (diretto da Susanna Nicchiarelli ma tratto da un suo romanzo), il tempo è al centro della storia e la chiave è la nostalgia (anche molti dei documentari di Veltroni girano intorno alla nostalgia), anche se stavolta con uno spunto quasi fantastico. Questa è la storia della maniera in cui si adatta al presente una persona caduta in coma alla fine del mondo di Berlinguer, che nell’immaginazione veltroniana è il modello aureo dell’Atene di Pericle, la perfezione che coincide con la sua stessa gioventù. Il confronto tra quel mondo e il presente che fa un 50enne con la testa di un 18enne che però parla e ha riferimenti di un 50enne, è il senso ultimo del film e non è difficile immaginare quali saranno gli esiti. Semmai era difficile prevedere la grossolana e sfacciata ruffianeria di molti passaggi!
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