Quando, la recensione

Il mondo veltroniano prende di petto in Quando il vero tema della sua produzione culturale, il biasimo del presente a favore dell'esaltazione del passato

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Quando, l'ultimo film di Walter Veltroni, al cinema dal 30 marzo

Non c’è niente  di più italiano di un film di Walter Veltroni. E non c’è niente di più veltroniano dello spunto di Quando (che viene da un suo romanzo o come dicono i credits, da una sua “opera letteraria”). Il protagonista si sveglia da un coma durato 31 anni, da quando 18enne venne colpito in testa dal bastone che reggeva uno striscione comunista alla manifestazione per i funerali di Enrico Berlinguer. Sembra lo spunto di uno sketch di Avanzi e invece no, è la parte drammatica di una storia in forma di blanda commedia piena di sentimenti forti, pianti evidenti sotto la pioggia (una pioggia drammaturgica, localizzata proprio lì dove sì sta piangendo e che non si trova invece già a qualche quartiere di distanza) e gesti eclatanti sottolineati da ralenti e musiche.

Quelli di Veltroni come sempre sono film la cui scrittura ha dei modelli saldi ma anche una scarsa inventiva, distrutta dall’assenza di tecnica. Il bacino delle soluzioni a disposizione è ristretto e come nei film peggiori queste tendono a ripetersi, visto che pescano in un bacino piccolo, o al massimo ravanano nel banale gonfiate di aspirazioni che non possono sostenere. Voler fare molto con strumenti elementari. Film in cui i momenti teneri sono ben chiari e definiti e anche le musiche lo sanno, quindi si adeguano, mentre i personaggi un po’ si commuovono con occhi lucidi e un po’ guardano in silenzio.

Come già in C’è tempo o in La scoperta dell’alba (diretto da Susanna Nicchiarelli ma tratto da un suo romanzo), il tempo è al centro della storia e la chiave è la nostalgia (anche molti dei documentari di Veltroni girano intorno alla nostalgia), anche se stavolta con uno spunto quasi fantastico. Questa è la storia della maniera in cui si adatta al presente una persona caduta in coma alla fine del mondo di Berlinguer, che nell’immaginazione veltroniana è il modello aureo dell’Atene di Pericle, la perfezione che coincide con la sua stessa gioventù. Il confronto tra quel mondo e il presente che fa un 50enne con la testa di un 18enne che però parla e ha riferimenti di un 50enne, è il senso ultimo del film e non è difficile immaginare quali saranno gli esiti. Semmai era difficile prevedere la grossolana e sfacciata ruffianeria di molti passaggi!

Si passa dall’ordinario luddismo del cinema italiano (“Co’ sti aggeggi tecnologici sai tutto del presente ma un cazzo del passato” dice il protagonista ad un ragazzo), all’esposizione dei riferimenti culturali (“Qui ci comprai Quaderni dal carcere…. Tosto. Ma necessario”) fino al cringe (quando il protagonista ritrova la tessera del partito comunista dell’epoca, con l’immagine di Togliatti sopra e si scioglie di tenerezza salvo poi dire: “Se dovessi scegliere però sceglierei Berlinguer”). Il trionfo del biasimo nei confronti del presente e della nostalgia per il passato, in una confezione che cerca sempre i sentimenti giganteschi. Addirittura un cameriere di ristorante sofisticato interpretato da Stefano Fresi dopo aver elencato un menù ricercato e moderno confesserà ai clienti, dopo aver precisato di essere laureato in filologia romanza, che questa cucina di oggi è tutta un’idiozia. L’apoteosi della mentalità “Ma non è meglio una bella pizza?” applicata alla visione del mondo ma in fondo anche alla regia.

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